G. Agazzi
Tutti gli storici concordano sul fatto che, nel corso della Guerra bianca, i più spietati nemici dei soldati italiani, i nemici che mietevano più vittime, non furono gli austro-ungarici ma il gelo, le tormente di neve, la mancanza di tutto, a partire dal cibo e da scarpe idonee ad affrontare i meno 40 gradi sotto zero. Per entrambi gli eserciti le difficoltà di approvvigionamento erano enormi e per entrambi era insormontabile il problema dell’equipaggiamento. Lo spettro dell’assideramento e, nei casi migliori, il pericolo di ammalarsi per il freddo e la mancanza di igiene erano in perenne agguato per i nostri soldati, sfiniti dalla fame, con ai piedi scarpe di cartone e il morale a terra. Il sistema medico-sanitario, che pure agiva al massimo delle proprie possibilità ed era considerato all’avanguardia, si trovava a dover gestire con pochissime risorse trasporto, cura e ricovero di migliaia e migliaia di uomini sfiancati da una malattia o feriti da colpi di artiglieria. Quella che si stava combattendo era una guerra assurda, che non aveva precedenti perché si svolgeva a un’ altitudine che complicava qualunque operazione, che rendevano inadeguate le soluzioni che in piano potevano funzionare. Una teleferica a tre tratte collegava Malga Caldea al rifugio Garibaldi e, poi, raggiungeva i passi Garibaldi (3187 m.) e Venerocolo (3136 m.): grazie a essa arrivavano ai ghiacciai fino a 400 quintali di merce al giorno, compresi i medicinali e altri presidi medici. Altre teleferiche collegavano la Val Sozzine alla Costa di Casamadre e Sozzine a Plaz dell’Orto in Val Narcanello, da dove due linee separate portano ai passi del Castellaccio e di Lagoscuro. Dopo la conquista del Corno di Cavento, una teleferica collegò questa posizione e il monte Fumo. Pur essendo un mezzo indispensabile con cui trasportare in fretta morti e feriti non bastavano ad arginare l’orrore. Occorrevano, infatti, muli per riportare a valle chi non poteva farcela sulle proprie gambe, servivano disinfettanti, bende, garze, morfina, lacci emostatici, filo per sutura, siringhe ma questi presidi irrinunciabili scarseggiavano. Nel 1915 i soldati italiani andavano in guerra con una dotazione sanitaria risibile: garze, una fialetta di tintura di iodio, maschera, occhiali anti-gas. L'aspirina era usata esclusivamente presso le infermerie. Ogni soldato portava una targhetta con le generalità, e ai feriti veniva data una seconda targhetta con su scritto il tipo di lesione riportata e le cure mediche sino ad allora ricevute. Ogni Compagnia di Alpini possedeva 4 barelle, l’occorrente per medicare le ferite, etere e cloroformio come anestetizzanti, antiparassitari, e fiale di morfina. Ma non era sufficiente. Si sa che, quando le garze finivano, si toglievano di dosso a chi ormai non ne aveva più necessità per poi riutilizzarle su chi invece poteva ancora avere una speranza. Non c’erano antibiotici e così le infezioni si sviluppavano senza che nulla potesse contrastarle, condannando a morte chi le contraeva. Spesso mancava l’acqua e per la sete qualcuno arrivava a bere la propria urina.
Il clima di montagna, da solo, determinava effetti avversi nell’organismo dei soldati, a causa delle riduzioni che produce: pressione barometrica, ossigeno, densità dell'aria, umidità relativa, temperatura esterna. Alle carenze si associano un aumento della ventosità e delle radiazioni solari. Queste ultime causavano danni agli occhi dei soldati, quindi erano frequenti le congiuntivite. Il problema si attenuò quando vennero dati in dotazione dei soldati, anche grazie all’intervento di privati, occhiali protettivi. La scarsa igiene e la promiscuità favorivano l'insorgere delle infestazioni da pidocchi che potevano essere veicolo di tifo esantematico o petecchiale. Per contrastarli i soldati utilizzavano olio di antracene e soluzioni di benzoato di benzile erano prodotti chimici usati dai soldati. L’altra terribile insidia era rappresentata dai congelamenti. La Relazione del Corpo Sanitario Italiano riporta che nel 1915, a causa di congelamenti in trincea, si ebbe fino al 60 per cento di combattenti allontanati dal fronte. Per aiutare i soldati a difendersi dalle temperature al di sotto dello zero Leone Sinigaglia, socio del CAI, creò un opuscolo da inviare al fronte, contenente una serie di istruzioni per limitare i pericoli del freddo. L’alimentazione era carente sotto tutti i profili, specialmente verso la fine della guerra: i cibi in scatola e l’abbondante uso del caffè non favorivano la resistenza fisica dei soldati.
All’inizio del conflitto si era pensato che tutto si sarebbe risolto in un breve arco di tempo: nessuno era preparato a una guerra che sarebbe durata a lungo.
Patologie legate alla guerra in quota:
Mal di montagna (AMS), caratterizzato da spossatezza, mal di testa, nausea, vomito, senso di oppressione al petto, carenza di aria, sudorazione, svenimento-
Insolazione, colpi di calore, scottature, congiuntiviti.
Reumatismi, bronchiti, polmoniti, diarrea.
Febbre da stanchezza e febbre da trincea, associate a aumento del battito cardiaco e respiro affannoso
Mal da caverna, descritto come un disagio psichico opprimente
Stress da combattimento, caratterizzato da insonnia, inappetenza, malattie gastrointestinali, depressione.
Ipertensione e alterazioni cardiache, legate anche all’abuso di alcol e caffè.
Nefrite acuta a frigore (da freddo) riscontrata per la prima volta proprio sull’ Adamello nel 1916
L’INFERMERIA DAVIDE CARCANO
Nel 1916 i medici militari erano 8 mila, nel 1918 18 mila.
Vivevano coi propri soldati e coi propri ufficiali, nelle stesse condizioni di disagio, asprezza, fatiche e pericolo, partecipando attivamente ai combattimenti, come volevano gli ordini relativi alle azioni di guerra. Il loro compito era (anche) quello di visitare le postazioni avanzate delle truppe in quota, per infondere forza, conforto, coraggio a soldati, feriti, ammalati e combattenti, prestando la loro elevatissima opera con profonda umanità … E’ quanto riferì in seguito Giuseppe Carcano, allora trentottenne capitano medico, amatissimo dagli alpini, a cui si deve la costruzione in Val D’Avio di una vera e propria struttura ospedaliera che venne battezzata “Infermeria Davide Carcano” per rendere omaggio a…
… Sorgeva dove allo scoppio della guerra esisteva il piccolissimo Rifugio Garibaldi, inaugurato dal CAI nell’agosto 1894 e successivamente requisito dal Ministero della Guerra per diventare il fulcro del quartier generale, da cui mosse l’azione bellica per la conquista dell’Adamello. L’infermeria Carcano divenne un nucleo sanitario contenente 50 brande o 150 lettini sovrapposti, dotato di sala operatoria, sala di medicazione, bagno, cucina economica, termosifone, cucina economica. Una volta completato, appariva come una grandiosa costruzione in muratura, un ospedaletto attrezzato modernamente (per l’epoca). I lavori di ampliamento furono diretti dal tenente del Genio Alessandro Volta nell’agosto 1915. Una teleferica arrivava davanti all’ingresso dell’edificio. Nel frattempo, il presidio del “Garibaldi” nella conca del Venerocolo era stato rafforzato fino a raggiungere i 600 uomini, la “Compagnia Autonoma Rifugio Garibaldi”. La zona del Rifugio Garibaldi, in Val d'Avio, fu il cuore pulsante delle azioni militari nel Gruppo dell'Adamello mentre l'Infermeria Davide Carcano rappresentò il centro dell'organizzazione sanitaria dell'intera regione. Com’è ovvio, la vita dell'infermeria era strettamente legata all’opera del dottor Giuseppe Carcano. Questo ufficiale visionario dopo aver analizzato le carenze del Servizio Sanitario durante i combattimenti della primavera del 1916, riuscì a riordinare e potenziare il recupero dei feriti sul campo di battaglia. In particolare, progettò un sistema per adattare le comuni barelle rigide agli sci, affinché da un lato i feriti potessero scivolare sulla neve ricevendo meno scossoni dall’altro fosse alleviata la fatica dei soccorritori. Tra le tante iniziative di Carcano, la costituzione di due squadre per il recupero dei soldati che venivano feriti sul ghiacciaio: ciascuna era munita di presidi medici per le medicazioni e di generi di conforto sufficienti per assistere una cinquantina di uomini. Ma l’opera di Carcano, di fatto straordinaria, era ancora poca cosa in relazione ai più di 1300 morti dell’Adamello. Si dice che fu medico non solo dei corpi ma anche delle anime: la sua dedizione unita a intuito e ottime capacità strategiche lo resero una figura preziosa anche durante la Seconda Guerra Mondiale, quando prestò servizio con il grado di tenente colonnello medico all’Ospedale militare di Milano. Morì qualche mese prima di compiere 85 anni, a Milano, forse neppure consapevole di essere entrato nella Storia.
Altre infermerie furono allestite al Venerocolo, al Folgorida, al Lares, al passo di Lagoscuro e a quello della Lobbia. In queste realtà oltre a essere medicati, i feriti potevano ricevere il conforto di una bevanda calda e rifugio per qualche notte. Un altro punto nevralgico per la cura dei feriti si trovava a passo Brizio: a dirigerlo un farmacista che sorvegliava anche sul trasporto dei feriti , provvedendo al cambio dei portatori e al recupero delle barelle. Dai vari rifugi, durante il giorno i feriti, portati a valle non di rado scansando granate e raffiche di mitragliatrici e scavalcando corpi senza vita, venivano poi condotti, con carri o le prime autoambulanze, agli ospedali di Stadolina e di Edolo. Di notte erano i morti a essere trasportati: la loro meta era cimitero di Temù.
L’organizzazione dell’ Unità di Sanità Militare:
L’unità operativa di base della Sanità Militare al fronte era diretta da un capitano Medico ed operante a livello di reggimento di fanteria, che, a sua volta era diviso in due reparti di Sanità aggregati ognuno al Comando di battaglione e comandati da un Tenente Medico
Il Reparto di Sanità era composto da: un Tenente comandante, uno/due Aspiranti Ufficiali Medici Subalterni, un Cappellano Militare.
Circa trenta tra Militari Infermieri, portaferiti e barellieri divisi in squadre da dieci elementi, diretti da Sergenti o Caporali Aiutanti di Sanità.
Le Compagnie di Alpini avevano Sezioni di Sanità autonome per meglio adattarsi all’operatività del reparto e ai terreni di montagna
Costituzione di un reparto speciale di Sanità destinato ad operare in alta montagna:
Personale: 2 ufficiali medici,1 graduato, 2 aiutanti di Sanità, 7 portaferiti ( 3 portano le gerle, 2 i sacchi tirolesi, 2 i bidoni). Un numero variabile di porta-feriti in rapporto al numero delle barelle, di regola 2 per barella.
Una tenda di medicazione e due copertoni di ricovero.
Fu allora che nacque il criterio del “triage”, oggi ampiamente utilizzato nei Pronto Soccorso di tutti gli ospedali. A seconda della gravità si assegnava al paziente un colore: bianco se era una cosa lieve; verde se si trattava di un problema importante ma il soldato era trasportabile; rosso se non c’era più nulla da fare. Fu allora che venne ideata dal medico tirolese Robert Stiegler la prima barella da montagna che consentiva il trasporto dei feriti in spalla.
I medici operavano in condizioni estreme, lavorando senza sosta per giorni interi, in spazi angusti, tra i lamenti di dolore che non potevano alleviare perché morfina non ne avevano. Le ferite, causate quasi sempre da schegge di granata o da pallette di shrapnel, erano sporche e a contaminarle contribuivano brandelli di vestiario. Erano in molti a morire per dissanguamento, perché la pratica delle trasfusioni non era ancora diffusa (ma anche se lo fosse stata sarebbe stato impensabile utilizzarla in quegli ospedaletti di fortuna).
Oltre 3000 uomini combatterono in ogni angolo dell’Adamello. Ogni giorno venivano impiegati per i trasporti 600 muli e 1800 portatori, per recapitare sui ghiacciai fino a 400 quintali di rifornimenti, compresi medicinali e altri presidi medici. Nel ghiacciaio vennero scavate lunghe gallerie per rifornire di notte le posizioni più avanzate. Per il trasporto vennero utilizzati cani: tra il 1917 e il 1918 erano 250 i cani da slitta del raggruppamento dell’Adamello”: 200 al passo Garibaldi (3200 m.) e 50 al passo della Lobbia Alta ( 3050 m.). La galleria più lunga, circa cinque chilometri, collegava il passo Garibaldi con il passo della Lobbia Alta: era illuminata da 120 lampadine elettriche alimentate da due gruppi elettrogeni, attraversava 25 crepacci e aveva 80 camini per la ventilazione e piazzole di scambio, ponti allungabili per il passaggio sui crepacci mobili. I cani trainavano in gruppi di 2-3 60-150 chilogrammi. Il servizio iniziava all’alba con 2-3 viaggi al giorno da passo Garibaldi al Passo della Lobbia Alta, Folgorida e teleferica del Cavento. Un’altra galleria venne scavata, a causa delle valanghe, nella neve per oltre 1000 metri lungo la “decauville” che fiancheggiava il lago d’Avio.I cani erano impiegati inoltre, all’occorrenza, per il trasporto dei feriti, così come si utilizzavano gli asini. Sia gli uni sia gli altri trovavano ricovero alla fine dei loro sfiancanti tragitti in una baracca allestita a passo Garibaldi. Ma per gli animali non c’erano cure, in caso di bisogno, per cui (anche) per loro qualunque infortunio o malattia potevano significare morte nell’arco di poco.
I PASSI AVANTI DELLA MEDICINA
La Prima Guerra Mondiale fu l’occasione per i medici di sperimentare e migliorare nuove cure, nuove procedure, nuove tecniche di intervento nel campo della farmacologia, anestesia, radiologia e, soprattutto, della chirurgia. Inoltre, ebbero nuovo impulso la medicina di emergenza e la riabilitazione post traumi, tant’è che si può affermare che la “medicina di montagna” nacque proprio in questo periodo. Per quanto riguarda i disinfettanti, presidi irrinunciabili per medicare le ferite, impedendo lo sviluppo di infezioni, il primo fu messo a punto dal chimico americano Dakin insieme al chirurgo francese Carrel, a cui fu assegnato il Nobel nel 1912: si trattava di una soluzione costituita da ipoclorito di sodio e acido borico. Grazie a esso, la mortalità si abbassò del 10-15 per cento. Anche la tintura di iodio, inventata nel 1908 dal medico istriano Grossich, salvò molte vite, in quanto consentiva una adeguata sterilizzazione dei campi operatori. Oltre alla tintura di iodio su impiegava inoltre una soluzione alcolica di timolo al 5%. Nell’ambito della prevenzione, vennero organizzate campagne di vaccinazione contro varie malattie infettive, quali vaiolo, colera, febbre tifoide, che coinvolsero non solo i militari ma anche per la popolazione civile. Secondo fonti autorevoli, grazie alla vaccinazione antitifica nell’esercito si verificò una significativa diminuzione della febbre tifoidea e di altre forme paratifiche, che dal 17,9%, registrato nel 1915, discesero in un anno al 12% per arrivare al 2,6% nel 1917, e addirittura all’1,3% nel 1918. Una prova antica di come la profilassi vaccinale rappresenti un mezzo salva-vita.
LA GUERRA BIANCA IN CIFRE
600 chilometri del fronte alpino
650.000 morti circa nel corso della Grande Guerra
160.000 morti circa nel corso della guerra bianca
150.000 circa morti provocati dalla montagna
1300 morti sul fronte dell’Adamello
60.000 morti a causa della “morte bianca” nei due schieramenti
30-40.000 morti causati dalla montagna nella zona Ortles- Adamello-Giudicarie
408 valanghe cadute nell’inverno 1915-16 nella zona dell’Adamello con oltre 600 vittime censite fino all’ 11 marzo 1916
105 valanghe segnalate in un solo giorno il 13 dicembre 1916
13 metri l’altezza della neve caduta sulla vedretta del Mandrone nel 1917
-30-35° C le temperature raggiunte d’inverno
38 i morti dovuti alla valanga di malga Caldea
282 i casi di congelamento tra il 15 aprile e il 21 maggio 1916 sull’Adamello
70% delle ferite causate dall’artiglieria
3500 metri la quota più alta
3000 uomini vissero e combatterono sul massiccio dell’Adamello
4 viaggi all’ora per teleferica
60 feriti trasportati al giorno
600 muli impegnati al giorno
60 asini impegnati per il trasporto sui ghiacciai
250 cani circa impegnati per i trasporti in alta quota
2-3 cani trainavano 60-150 Kg
60 slitte utilizzate
1800 portatori impegnati al giorno
Per ogni 100 uomini in linea 900 portatori
20 Kg. a testa di carico
Le battaglie bianche :
1915: Conca Presena
1916: Cresta Croce, Lares
1917: Corno di Cavento
1918: Conca di Presena
Da La Rivista del CAI , Montagne 360, giugno 2017