Ipossia d’alta quota: aspetti psicologici e neuropsichiatrici

 

Giancelso Agazzi

 

Il 30 maggio 2023 si è svolto a Chieti nell’Auditorium del Rettorato dell’Università Gabriele

 D’annunzio il convegno “Ipossia d’alta quota: aspetti psicologici e neuropsichiatrici”, nato dalla collaborazione tra il CAI di Chieti, fondato nel 1872 e l’ateneo teatino.

Dopo i saluti istituzionali, ha preso la parola il professor Camillo Di Giulio, ordinario di fisiologia dell’Università Gabriele D’Annunzio. Il relatore ha parlato di “Attività cerebrale e ipossia”. Tre sono gli elementi condizionanti sulla terra: la forza di gravità, la temperatura e la presenza dell’ossigeno (21%). Esistono vari tipi di ipossia: ipossica, anemica, stagnante, ischemica e istotossica.

L’organismo si deve adattare allo stress causato dall’ipossia in alta quota, cercando di mantenere l’omeostasi del corpo. Sono da poco trascorsi 70 anni dalla prima salita dell’Everest.

Lo stress causato dall’ipossia viene superato poco alla volta in modo inconscio. Si verifica un’attivazione del simpatico con rilascio di adrenalina. I corpi carotidei, strutture molto vascolarizzate, rilevano lo stato di carenza di ossigeno. Gli adattamenti alla quota sono di due tipi. Quello veloce (secondi o minuti) include iperventilazione, aumento della gittata cardiaca, vasocostrizione polmonare, vasodilatazione periferica, attivazione dell’uptake del glucosio.Quello lento (ore o giorni) comprende attivazione del metabolismo e del trasporto del glucosio, attivazione della eritropoiesi, dell’angiogenesi e della neovascolarizzazione, ipertrofia dei tessuti e rimodellamento, produzione di sostanze vasodilatatrici. Diversi studi hanno mostrato una compromissione della memoria, del linguaggio, della percezione, dell’umore, dell’apprendimento, della flessibilità cognitiva e delle capacità psicomotorie nel corso dell’ascesa in alta quota e un aumento dei tempi di reazione. Nel corso della permanenza in alta quota si verificano turbe del sonno, con risvegli notturni. Il feto umano cresce nell’utero in un ambiente ipossico, che si ripete nell’uomo in caso di malattie gravi o in alta quota. L’ipossia è definita come una carenza nell’apporto o nell’utilizzo di ossigeno a livello tissutale, che può portare a cambiamenti nella funzione, nel metabolismo e nella struttura del corpo. Già Angelo Mosso aveva dimostrato una relazione tra circolazione cerebrale, pensiero e temperatura. Il cervello ha un peso del 2% del peso corporeo, consuma il 20% del metabolismo energetico totale. Ha un alto tasso metabolico, non ha riserva di ossigeno ed è incapace di mantenere la sua integrità attraverso il metabolismo anaerobico. Tra i sintomi causati dall’ipossiemia: mal di testa, difficoltà alla respirazione (dispnea), tachicardia, tosse, confusione, colore blu della pelle, delle dita e delle labbra. L’ipossia e l’anossia sono determinate dalla mancanza parziale o completa di ossigeno a livello cerebrale o del sangue. L’asfissia si verifica durante la vita prenatale, quando lo scambio di gas placentare o fetale è compromesso. L’ischemia avviene quando il flusso di sangue a livello di un organo è alterato, portando a un’ulteriore diminuzione dell’apporto di ossigeno e substrato. Il freddo protegge dall’ipossia. Ippocrate raccomandava che i soldati con traumi cranici venissero raffreddati con ghiaccio e neve nel 5° secolo avanti Cristo. In ipossia cronica il numero dei mitocondri si riduce. Il fattore inducibile da ipossia (HIF-alfa) è l’interruttore centrale che permette alle cellule di rispondere alla carenza di ossigeno. Il premio Nobel Greg Semenza è riuscito a far luce su alcuni aspetti dell’HIF nell’ipossia.

È, poi, intervenuto Luca Tommasi per parlare di “Universalità vs esperienza: uno studio pilota interculturale sull’effetto della consonanza della musica a diverse altitudini”. In alta quota si verifica un cambiamento sensoriale, cognitivo e attentivo. Si assiste a un indebolimento delle capacità cognitive, la dimensione sensoriale diminuisce, con una modificazione della soglia uditiva.  Accade la fenomenologia delle allucinazioni uditive e il fenomeno del terzo uomo. L’orecchio destro è collegato con l’emisfero sinistro. A 5000 metri si assiste a un cambiamento dell’audiometria in ipossia ipobarica. Vi è un adattamento della soglia dell’olfatto in alta quota. Il fisiologo tedesco Poffenberger nel 1912 ha effettuato studi sulla percezione uditiva in alta quota.

È stato effettuato uno studio pilota riguardante la percezione che hanno gli Sherpa rispetto alla consonanza e alla dissonanza nella musica in bassa e alta quota.

Giovanni Martinotti della Cattedra di Psichiatria dell’Università Gabriele D’Annunzio di Chieti, ha parlato di “Suicidio e altitudine: una revisione sistematica della letteratura mondiale”. Il suicidio interessa la popolazione globale nel mondo con 800.000 morti all’anno, rappresentando un problema di salute pubblica mondiale e rappresentando la seconda causa di morte tra 15 e 19 anni di età. La Russia presenta il più alto tasso di suicidi tra gli uomini. L’ideazione suicidiaria è presente in una percentuale significativa di adolescenti. I tentativi di suicidio nell’adolescenza oscillano tra il 4,2 e il 17%. Dopo un tentativo il 25% ne compirà un secondo. L’ideazione suicidiaria si trasforma in tentativo nel 30% dei casi. Quando il suicidio è pianificato, nel 60% dei casi viene messo in atto. Il solo raccontare l’idea del suicidio fa sì che nelle settimane successive il gesto non venga più portato a compimento. Il trend è in aumento nel corso degli ultimi anni. L’ipossia costituisce un fattore di rischio. Isolamento e immigrazione sono fattori favorenti. Anche l’emulazione rappresenta un fattore favorente il suicidio. Tra altri fattori di rischio quelli demografici (maschi bianchi), comportamentali (fumo, possesso di armi), socioeconomici (disoccupazione), diagnosi di salute mentale, geografici (ruralità, isolamento, accesso limitato ai servizi). Recentemente sono emerse prove che riportano un’associazione tra suicidio e fattori ambientali, in particolare pressione atmosferica, inquinamento atmosferico e altitudine. Esiste una sovrapponibilità tra utilizzo di sostanze psicoattive e tendenza al suicidio. L’ipossia è un fattore di rischio. Esiste una base fisiologica per questa ipotesi. Con l’aumentare dell’altitudine la pressione parziale dell’ossigeno diminuisce, causando un minore assorbimento di ossigeno all’interno del corpo che può portare a ipossia e stress metabolico, influire negativamente sull’umore e potenzialmente aumentare il rischio di depressione. Sebbene la causalità non sia stata stabilita, Kious et al. (2020) suggeriscono due possibili collegamenti tra i rischi di suicidio e l’ipossia ipobarica.

L’alterata sintesi dei neurotrasmettitori è correlata alla diminuzione del contenuto di ossigeno nel sangue. Sono stati proposti molti meccanismi per spiegare questo effetto sull’umore, comprese le influenze sui neurotrasmettitori cerebrali, sulla farmacocinetica delle medicine e sul metabolismo cellulare. I livelli di serotonina diminuirebbero e i livelli di dopamina aumenterebbero, il che può portare, in linea teorica, a comportamenti impulsivi e fuori controllo. Queste condizioni possono combinarsi per aumentare il rischio di suicidio. È stato anche dimostrato che altri fattori che si verificano ad alta quota, come la pressione barometrica inferiore e i cambiamenti nel metabolismo del litio, alterano il comportamento umano, la salute mentale e il suicidio. Sono stati studiati alcuni database elettronici PubMed, CINAHL, EMBASE e Psychinfo. Tra i criteri di inclusione: lingua inglese, valutazione del rapporto tra altitudine e suicidio come obiettivo primario o secondario, inclusione di soggetti umani.

Il campione finale comprendeva 18 disegni descrittivi retrospettivi e uno studio di popolazione di coorte retrospettiva. Erano rappresentati diversi paesi tra cui Stati Uniti (11), Turchia (2), Equador (1), Giappone (1), Corea del Sud (1), Austria (1), Italia (1), e uno studio che comprendeva 62 nazioni. Dei 19 studi 17 hanno riportato prove di una correlazione positiva tra altitudine e aumento del suicidio. Quando l’altitudine è stata esaminata come variabile continua, il suicidio è aumentato con incrementi ogni 1000 metri di altitudine. Huber et al. (2014) hanno esaminato individui con diagnosi di disturbo bipolare residenti ad alta quota in 16 stati degli Stati Uniti e hanno scoperto che l’altitudine era un fattore predittivo significativo di suicidio. Tra tutti gli studi esaminati sono state prese in considerazione le seguenti varianti: clima, densità di popolazione e possesso di armi. È stata trovata una correlazione positiva significativa soltanto tra suicidio e aumento dell’accumulo di neve (abbassamento delle temperature atmosferiche). Nel complesso questa revisione sistematica rivela che la relazione tra altitudine e suicidio necessita di ulteriori conferme, con un piccolo, ma crescente corpus di letteratura che suggerisce che l’altitudine sia associata a un aumentato rischio di suicidio. Tutti gli studi, tranne uno, hanno esaminato l’altitudine media in relazione a grandi spazi geografici (ad esempio stato, contee, distretti o province), il che offusca la possibilità di significative variazioni di altitudine tra le regioni (ad esempio altitudine media statale). È stata condotta una revisione della letteratura degli studi pubblicati sull’alta quota e il suicidio su Medline, Embase, Web of Science, Cochrane Database Systematic Reviews, Cochrane Central Database. Sono stati selezionati 470 articoli, di cui solo 6 hanno soddisfatto i criteri di inclusione. In cinque degli studi selezionati è stata riscontrata correlazione positiva tra alta quota e maggior rischio di suicidio. Uno studio ha rilevato che molte caratteristiche individuali di coloro che si sono suicidati erano diverse ad alta quota rispetto a bassa quota, inclusa la mancanza di accesso o barriere all’assistenza sanitaria mentale.

Le persone che vivono in montagna probabilmente sperimentano cambiamenti di altitudine durante il giorno a seconda di dove lavorano, quindi tutti gli studi esaminati hanno misure scadenti dell’esposizione individuale all’altitudine.

L’analisi di aree geografiche molto vaste è problematica perché le significative variazioni di altitudine in queste regioni hanno reso impossibile determinare con precisione a quali altezze vivevano le vittime di suicidio.  Gli studi ecologici aiutano a identificare correlazioni meritevoli di ulteriori indagini e possono dimostrare fenomeni a livello di popolazione, ma non possono individuare associazioni causali. Pertanto, sono necessari studi sul singolo soggetto per comprendere causa ed effetto.

Sebbene sia stato ipotizzato che l’impatto dell’ipossia sull’umore e sulla depressione sia una causa contribuente, molti altri fattori individuali probabilmente giocano ruoli importanti.

Le vittime di suicidio ad alta quota differiscono in modo significativo da quelle a bassa quota in molteplici caratteristiche demografiche e di salute mentale (tra cui etnia ispanica, intossicazione, uso di armi da fuoco, recenti problematiche finanziarie e lavorative, problemi legali e interpersonali). Questi fattori, rispetto all’ipossia, sono spiegazioni più probabili e più plausibili per gli alti tassi di suicidio ad alta quota che pure potrebbe rappresentare un ulteriore fattore di rischio.

È seguita la presentazione di Giorgia Committeri, professore associato di psicobiologia e psicologia fisiologica dell’università di Chieti, dal titolo “Correlati neuropsicologici e di neuroimaging in un trekking in alta quota nella spedizione “Gokyo Khumbu/Ama Dablam” (durata 12 giorni). Nel corso dell’impresa in Nepal nel 2012 molte sono state le persone coinvolte. Scopo della ricerca indagare gli effetti dell’ipossia/trekking ad alta quota su: misure neuropsicologiche (ansia, umore e specifiche abilità cognitive, come fluenza verbale, memoria a breve termine, memoria di lavoro) e misure di neuroimaging funzionali quali connettività funzionale a riposo o rsFC (resting-state brain functioanl connectivity) e perfusione cerebrale) e anatomiche (microstruttura/connettività della sostanza bianca tramite Diffusion Tensor Imaging o DTI). Si sono costituiti un gruppo sperimentale con 12 trekker (6 femmine) e un gruppo di controllo con 12 volontari sani (6 femmine).

Una esposizione ipossica a una altezza di circa 5000 metri e di breve durata non conduce ad alterazioni neurocognitive o adattamenti patologici a livello di struttura e funzione cerebrali, specialmente in assenza di mal di montagna. Non si sono registrati cambiamenti nella perfusione. L’introduzione del gruppo di controllo ha permesso di smascherare effetti di familiarità o pratica. Sono necessari studi futuri su campioni più ampi e soggiorni più lunghi per confermare i dati e comprendere meglio il ruolo sia della durata e altezza dell’esposizione all’ipossia che del genere.

Simona Mrakic Sposta, ricercatrice del Cnr di Milano e segretaria della S.I.Me.M., ha parlato di “Sir Ernest Shackleton: la forza della mente in ambienti estremi e ostili”.  Il sogno di Shackleton era divenire il primo esploratore a effettuare l’attraversamento a piedi del continente antartico. Egli scelse tra 5000 candidati, dando inizio a quell’epoca moderna a bordo di una nave chiamata Endurance (resistenza) che rimarrà nella storia delle esplorazioni. Scelse uno a uno i membri dell’equipaggio, dal quale era ben voluto. Venne chiamato affettuosamente” il boss”. Nato nel 1874 Shackleton si arruolò nella marina all’età di 16 anni, abbandonando gli studi di medicina ai quali era stato avviato dal padre. Cresciuto professionalmente nella Royal Navy, fu probabilmente l’amore per Emily Dorman, divenuta, poi, sua moglie, nel 1904 al rientro dalla prima esplorazione antartica, che lo convinse ad abbandonare la marina militare per cercare orizzonti più ampi nell’esplorazione. La spedizione Endurance, conosciuta anche come “Trans-Antarctic Expedition” non fu la prima avventura di Shackleton in Antartide. Nel 1901-1903 l’eslporatore prese parte alla “National Antarctic Expedition” a bordo della Discovery, capitanata da Robert Falcon Scott, con l’obiettivo di raggiungere per primi il Polo Sud e consegnare questo successo al Regno Unito. Lo scorbuto, però, costrinse Shackleton a far ritorno senza poter raggiungere la meta.

Nel 1907-1909 guidò la British Antarctic Expedition a un passo dal Polo Sud a bordo della Nimrod.

Arrivato a sole 96 miglia dalla meta, tuttavia, preferì fare ritorno in quanto non certo di avere scorte a sufficienza per garantire un sicuro rientro all’equipaggio.

Scrisse alla moglie: ho pensato che avresti preferito un asino vivo che un leone morto.

Ernest Shackleton sviluppò una malattia mortale durante la spedizione “Discovery Antarctic” del 1901-1904. I suoi segni e sintomi documentati includevano gengive infiammate attribuite allo scorbuto, grave dispnea e intolleranza all’esercizio fisico, che si presentavano in un contesto di carenza nutrizionale. Gli esami fisici successivi, anche a seguito di una dieta prolungata e limitata ad alimenti freschi, hanno rivelato un soffio sistolico. La carenza di tiamina (vitamina B 1) con cardiomiopatia, esacerbata dallo scorbuto avanzato, potrebbe essere stata una causa importante della condizione critica di Shackleton. La carenza di vitamina B1 determina alterazioni del sistema nervoso e del sistema cardiovascolare e si associa sempre a deperimento generale. Nei casi peggiori la compromissione dello stato di salute indotta dalla carenza di vitamina B1 può avere conseguenze irreversibili. La vitamina B1 interviene anche nei meccanismi che regolamentano il tono dell’umore, che consentono di apprendere e di mantenere l’attenzione. Una sua mancanza incide dunque negativamente anche sul piano psico-cognitivo.

Agli occhi del pubblico Shackleton è un eroe. I crescenti costi della spedizione e la necessità di far fronte ai debiti contratti fecero avvicinare pericolosamente l’esploratore alla bancarotta, che venne evitata soltanto grazie a un contributo governativo di 20.000 sterline. Re Edward VII gli conferì l’Ordine Reale Vittoriano che, successivamente, attribuì all’esploratore l’Ordine dell’Impero Britannico. A conquistare il Polo Sud fu Roald Amundsen il 14 dicembre 1911 con un gruppo di cinque norvegesi nel corso dell’omonima spedizione. Dopo la conquista del Polo Sud da parte di Amundsen che, per pochi giorni aveva preceduto la spedizione britannica di Scott, restava una sola grande impresa dell’esplorazione antartica: l’attraversata del continente bianco da mare a mare. Era il sogno di Shackleton, fra una spedizione nei ghiacci e un tè assaporato con i colleghi della Royal Geographical Society.

La vittoria di Amundsen su Scott nella corsa al Polo Sud nel dicembre del 1911 fu un grande smacco per il Regno Unito che aveva cercato di raggiungere questo obiettivo con ben tre spedizioni nel decennio precedente. Shackleton si attivò per reclutare un equipaggio e per finanziare una spedizione che lo portasse ad essere il primo esploratore ad attraversare l’Antartide a piedi. Disse: Davanti a un fallimento bisogna solo prepararsi meglio e provarci di nuovo. Fu uno spirito indomito, con una forza di volontà così caparbia da permettergli di superare ogni ostacolo incontrato sul suo cammino. Il suo piano prevedeva che l’Endurance raggiungesse la base di Vahsel come luogo di partenza per l’attraversata. Un’altra spedizione, partendo dalla barriera di Ross, avrebbe dovuto predisporre  depositi con provviste e materiali per rendere possibile il viaggio trans-continentale di oltre 3000 chilometri. L’Endurance salpò da Plymouth il 9 agosto 1914 su pressione di Winston Churchill (First Lord if the Admiralty) che invitò Shackleton a non tergiversare per lanciarsi a capofitto in questa avventura di interesse nazionale. Arrivato a Buenos Aires raggiunse, poi, Grytviken nella Georgia del Sud. A causa di un pack insolitamente esteso, la nave e i 28 uomini di equipaggio dovettero attendere sino al 5 dicembre per spingersi più a Sud. La spedizione incontrò i primi iceberg prima del nuovo anno, ma Shackleton ritenne che l’Endurance fosse in grado di navigare sino al luogo di sbarco prefissato senza particolari difficoltà. Più la nave avanzava verso Sud, però, più la navigazione si faceva difficoltosa a causa dell’ispessimento della banchisa. Nonostante ciò Shackleton era ottimista. A metà gennaio 1915, l’Endurance riuscì a percorrere giornalmente una distanza variabile. Talvolta lo scafo rimaneva totalmente immobilizzato dal ghiaccio e non si poteva fare altro che attendere, ma in altre occasioni la banchisa sufficientemente frammentata permetteva di avanzare con una certa libertà. Il 19 gennaio 1915, però, Shackleton si trovò bloccato. La nostra posizione al mattino del 19 era lat 76° 34’ S, long 31° 30’ O. il tempo era buono, ma era impossibile avanzare. Durante la notte il ghiaccio aveva circondato la nave e dal ponte non era possibile vedere mare libero.

Tutto indossa un aspetto di irrealtà. Gli iceberg sono appesi a testa in giù nel cielo, la terra appare come strati di nuvole argentee o dorate. I banchi di nuvole sembrano terraferma, gli iceberg si mascherano da isole o nunatak, e la lontana barriera a Sud è proiettata alla vista anche se in realtà è fuori dal nostro campo visivo. La cosa peggiore di tutte è l’apparenza ingannevole del mare aperto, causata dalla rifrazione di acque lontane…Tempo permettendo, si cerca di togliere il ghiaccio che continua a formarsi attorno al vascello. Ogni tanto si fanno lavorare i motori a pieno regime, per sfruttare ogni minima apertura, ma tutto pare inutile. Per fortuna il morale è ancora alto…(22 febbraio 1915).

Gli uomini sapevano che non sarebbe stata un’impresa facile, ma nemmeno Shackleton si aspettava un’estate tanto fredda. Si cacciavano le foche e ci si preparava all’inverno. Vennero approntati rifugi per i cani, sul ghiaccio. Colazione alle ore 9, pranzo alle ore 13, tè alle ore 16 e cena alle ore 18. Il 1° maggio 1915 il sole è tramontato per l’ultima volta. Ha avuto inizio la notte polare. A malapena si è vista la luce solare tra mezzogiorno e le 14. L’oscurità era attenuata dall’aurora e da una splendida luna piena, mentre gli allegri schiamazzi dei marinai spezzavano la monotonia della scena. I mesi seguenti passarono in grande tranquillità. Giorno dopo giorno era sempre più chiaro. Difficilmente l’Endurance avrebbe trovato uno spazio per disincagliarsi dai ghiacci. Il 14 e 15 febbraio del 1915 la nave rimase irrimediabilmente bloccata: una volta che il ghiaccio ti prende, non ti lascia più, disse una volta Shackleton.

A luglio Shackleton si rese conto che l’Endurance era ormai perduta e la spedizione definitivamente compromessa. Il 24 ottobre 1915 la nave finì in una frattura della banchisa. Sottoposto alla pressione del ghiaccio, il ponte iniziò a torcersi e a scomporsi. A questo punto l’acqua iniziò a penetrare nella stiva, mentre il legno si spezzò con rumori terrificanti successivamente descritti dai marinai come simili a quelli di grandi fuochi d’artificio e alla detonazione di cannoni. Nonostante il tentativo di pompare fuori l’acqua dallo scafo, il 27 ottobre 1915 Shackleton diede l’ordine di abbandonare la nave: …nell’Endurance avevo riposto ambizione, speranza e desiderio. Adesso gemendo e stridendo, mentre i suoi legni si spezzano e le sue ferite sanguinano, sta lentamente morendo, proprio ora che la sua carriera era appena iniziata.

L’uomo può sostenere la vita con mezzi molto scarsi. Gli orpelli della civiltà vengono presto messi da parte di fronte alla dura realtà.

Shackleton e il suo equipaggio restarono dal 29 dicembre all’8 aprile 1916 su un lastrone denominato “Patience Camp”, quando tentarono di raggiungere, a bordo di scialuppe tratte in salvo dalla Endurance, l’isola Elephant. Il 15 aprile 1916 riuscirono a raggiungere le coste dell’isola che, tuttavia, non era il luogo ideale dove attendere soccorsi. L’isola era, infatti, ricoperta solo da neve e ghiaccio, oltre alle poche rocce emergenti nei paraggi. I soli animali (foche e pinguini) non poterono costituire una fonte di cibo sulla quale fare affidamento e l’arrivo dell’inverno era un ulteriore fattore di pericolo e preoccupazione che Shackleton e i suoi uomini non poterono ignorare. A questo punto ordinò al carpentiere della spedizione di lavorare a una delle scialuppe della Endurance, la James Caird, alzandone i bordi, rafforzando la chiglia e costruendo un ponte improvvisato in legno e tessuto intriso di olio e sangue di foca per renderlo impermeabile.

Il 24 aprile 1916 la scialuppa si mise in mare con Shackleton e altri quattro uomini i quali partirono per la Georgia Australe a 1300 chilometri di distanza verso Nord fra onde alte 20 metri, venti sui 70 chilometri orari e varie avversità che hanno trasformato il viaggio della James Caird in una delle più temerarie imprese marittime di tutti i tempi, attraverso 800 miglia di burrascoso oceano subantartico…

I venti, le correnti e le onde rendevano il canale di Drake uno dei bracci di mare più insidiosi al mondo. Ogni due ore gli uomini si diedero il cambio al timone, ma il riposo era arduo a causa delle vessanti intemperie. Dovettero combattere contro paura, freddo, ghiaccio, terrore, sfinimento, fatica, sonno, fame. Il 20 maggio esausti, affamati, con barbe e capelli lunghi, volti segnati dalle fatiche, lasciarono decisamente stupefatti gli abitanti del posto. Quando gli uomini entrarono barcollando, il responsabile della stazione, Thorall Sorlle, non riusciva a credere ai propri occhi: avevano la barba lunga e i capelli arruffati, scrisse Shackleon, non ci lavavamo da quasi un anno e i nostri indumenti erano stracciati e sporchi.

Le missioni di salvataggio sarebbero state presto organizzate, ma, a causa delle condizioni avverse, solo il 30 agosto riuscirono a salvare il gruppo di Elephant Island. Shackleton tornò in Inghilterra il 29 maggio del 1917, privato dalla Guerra, degli onori che tradizionalmente sarebbero spettati al protagonista di una grande impresa esplorativa, purtroppo conclusasi con un fallimento e la perdita della fedelissima Endurance, che sarebbe stata, poi, ritrovata il 5 maggio del 2022 dal Falklands Maritime Heritage Trust. Il 30 agosto del 1916 tutti e 28 gli uomini salpati dall’Inghilterra due anni prima poterono, quindi, ritornare sani e salvi alle proprie abitazioni. L’impresa di Shackleton, a causa della rovinosa spedizione di Scott e delle sorti della guerra, passò praticamente sotto silenzio. Solo in anni molto recenti è stata rivalutata, inserendola a diritto tra le grandi imprese dell’Antartico. Oggi viene usata come caso studio nei corsi di problem solving.

Nonostante le difficoltà Shackleton è riuscito a mantenere l’ordine e la disciplina tra i membri della spedizione, organizzando una serie di salvataggi con mezzi di fortuna, fino a riuscire a portare tutti i membri dell’equipaggio in salvo. La sua capacità di prendere decisioni rapide (problem solving) e coraggiose ha fatto la differenza nella sopravvivenza di tutti i membri della spedizione che hanno trascorso oltre un anno e mezzo in condizioni estreme. La figura di Shackleton è diventata un’ispirazione per molte persone soprattutto grazie alla sua abilità nell’affrontare le situazioni difficili, nella sua capacità di motivare e di ispirare i membri del suo equipaggio e nella determinazione a raggiungere i suoi obiettivi, nonostante le avversità. La sua storia rimane una delle più straordinarie e affascinanti esplorazioni polari e la sua figura continua ad essere una celebrità come esempio di coraggio.  La sua leadership era caratterizzata da una grande umanità e, soprattutto, dalla capacità di saper scegliere gli uomini giusti, addestrandoli ai compiti più difficili, abituandoli ad affrontare ostacoli in apparenza insormontabili, senza mai risparmiarsi, nonché di guidare le persone piuttosto che comandarle. Tra le carte vincenti di Shackleton: leadership, valorizzazione del lavoro di gruppo, condivisione delle informazioni, presa delle decisioni basate sul consenso, importanza di un processo comunicativo efficace.

Dopo la pausa caffè, vi è stata la relazione di Matteo Gatti, psicologo dell’Università Gabriele D’Annunzio di Chieti, dal titolo “Quali cambiamenti psicologici in condizioni di ipossia? Dalla percezione alla memoria”. L’ipossia può causare deficit fisici e neurologici con un impatto sulla funzione cognitiva. Mentre il recupero è comune dopo l’ipossia acuta, quella cronica può portare a sequele cognitive persistenti, incluso il rischio di demenza. L’ipossia può compromettere diversi domini cognitivi come l’attenzione, l’apprendimento e la memoria, la velocità di processione e la funzione esecutiva. La gravità del deficit dipende dalla durata e dall’intensità dell’ipossia. L’ipossia cronica può produrre cambiamenti strutturali cerebrali con atrofia dell’ippocampo e della corteccia, allargamento dei ventricoli, deposizione di placche senili e grovigli neurofibrillari (Wang et al.,2021). Negli ultimi anni è cresciuto l’interesse per la comprensione dell’impatto dell’ipossia sulle funzioni cognitive, in particolare sulle prestazioni della memoria (Nation et al., 2017).

Un’esposizione di due anni all’alta quota ha compromesso la memoria verbale e la funzione esecutiva di giovani volontari. Chen e colleghi (2019) hanno effettuato uno studio longitudinale per comprendere le alterazioni cognitive e microstrutturali cerebrali dopo l’esposizione cronica all’ipossia. I soggetti del campione erano 49 matricole universitarie immigrate in Tibet che sono state seguite per due anni. Il gruppo di controllo era composto da 49 soggetti residenti sul livello del mare. Rispetto al gruppo di controllo, i partecipanti hanno iniziato a mostrare progressivamente un’accuratezza inferiore e tempi di reazione più lunghi nei test di memoria, in particolare la memoria di lavoro e la funzione psicomotoria sono risultate compromesse. Dal punto di vista neurologico sono emerse differenze cerebrali a livello strutturale tra i partecipanti esposti all’alta quota e quelli a livello del mare. L’ipossia, lo stress e altre condizioni possono compromettere la memoria e altre funzioni cognitive (Muthuraju et al., 2011). L’esposizione all’ipossia (4400 metri) inficia la memoria a breve termine e l’effetto aumenta in relazione all’altitudine (Du et al.,1999). L’ipossia inficia la memoria spaziale (Simonova et al.,2003), la working memory (Yan et al., 2011); l’aumento di frequenza degli errori è proporzionale al livello di ipossiemia (Malle et al., 2013).

Paolo Di Benedetto ha preso la parola per parlare della “Prevalenza della depressione e sintomi depressivi ad alta quota: una revisione sistematica e una meta-analisi”. Il relatore ha citato l’Harvard Review of Psychiatry che ha rilevato tra le persone che vivono in zone ad alta quota degli USA tassi di suicidio e di depressione superiori alla media (Kious, Kondo & Renshaw, 2018). In particolare i più alti tassi di suicidio appartengono ad Arizona, Colorado, Idaho, Montana, Nevada, New Mexico, Utah e Wyoming e sono in costante e drammatico aumento. Di fatto, per i ricercatori è stato possibile osservare che il numero dei suicidi è maggiore ad altitudini comprese tra 2000 e 3000 piedi. La bassa pressione atmosferica ad alta quota potrebbe abbassare i livelli di ossigeno nel sangue con conseguente effetto sull’umore. Un altro studio condotto da Ha e colleghi nel 2017 ha esaminato 3064 contee degli USA per verificare la presenza di una correlazione tra altitudine e tassi di suicidio. I dati di suicidio sono stati elaborati dal National Centre for Health Statistics dal 2008 al 2014. Ha e colleghi hanno scoperto che, per ogni aumento di 100 metri di altitudine i tassi di suicidio aumentano di 0,4 per 100.000 abitanti. In Corea del Sud si conferma che vivere ad alta quota sembra essere un fattore di rischio per il suicidio (Kim et al., 2011, Brenner et al., 2011, Kim et al., 2014). Nel 2011 Kim e colleghi hanno riportato una forte associazione tra il tasso di suicidio e l’abitare ad alta quota. L’aumentato rischio di suicidio  associato al vivere ad alta quota può essere parzialmente spiegato da un aumento dei tassi di depressione.  Klous e colleghi suggeriscono che la risposta potrebbe essere l’ipossia ipobarica cronica ovvero un basso livello di ossigeno nel sangue correlato alla bassa pressione atmosferica. Secondo Renshaw, una potenziale causa di depressione in condizioni di elevata altitudine potrebbe essere la presenza di bassi livelli di serotonina. L’ipossia danneggerebbe un enzima coinvolto nella sintesi della serotonina, probabilmente con conseguente abbassamento dei suoi livelli che potrebbe aprire la strada a un disturbo dell’umore. Questi meccanismi suggeriscono alcuni possibili trattamenti per mitigare gli effetti dell’altitudine sulla depressione e sul rischio di suicidio.

In occasione della Prima Giornata Mondiale per la prevenzione del suicidio tenutosi a Firenze sono state presentate alcune recenti ricerche che hanno evidenziato che nelle zone montane si rileva un tasso di suicidio superiore alla media regionale. Nei 20 anni presi in esame, il tasso di mortalità per suicidio (numero di suicidi ogni 100.000 abitanti) è sceso da 10,5 a 6,8. La maggiore densità con tassi tra 8,3 e 17,5 si rileva nella zona dell’Amiata e sulle montagne pistoiesi e casentinesi. Nell’anno precedente al suicidio il ricorso ai farmaci è triplicato, mentre nei quattro mesi prima tra il 40% e il 60% ha fatto una visita dal medico di famiglia. In generale tra le principali motivazioni problemi psichici, vivere in località montane isolate, disagi e violenze in famiglia, eccessivo consumo di alcol. Risulta, invece, protettivo vivere in posti caldi, con sole e mare, avere una fede cattolica. La montagna afflitta da mali geo-storici (isolamento e marginalità) antichissimi e praticamente irrimediabili, deve subire pure i contraccolpi di una società dei consumi che le ha sovrapposto un’immagine idealizzata, ma falsa e al cui confronto i suoi abitanti patiscono di una sorta di complesso di inferiorità. In passato la montagna era percepita come il regno della natura incontaminata, nel bene e nel male. Era un ambiente selvaggio, orrido, minaccioso, rischioso, pericoloso che attentava alla vita di chi lo violava o semplicemente lo attraversava. La modernità ha utilizzato e alimentato esclusivamente le immagini e gli elementi simbolici paradisiaci della montagna e cancellato ogni nesso con le interpretazioni demoniache, selvagge, inquietanti, maledette, legate al caos, all’entropia, alla perdita, alla rovina e alla morte.

I massicci montuosi, privi della loro aura mistica, appaiono simili a una sorta di meteorite, di luna, di pianeta disabitato, inospitale, pericoloso, inumano; un luogo in cui la presenza umana è superflua, in cui i segni eventuali di tale presenza, i frutti della lotta per la sopravvivenza- case, baite, fienili, villaggi, strade, sentieri, alpeggi, pascoli, campi- sono in balia del consumo, delle materie e delle loro forze. Si tratta di una visione tragica, disincantata, che mette a nudo gli aspetti più inquietanti e spaventosi di questo ambiente (frane, smottamenti, crolli devastanti, valanghe, alluvioni e distruzioni). La montagna ricorda il destino di perdita e di morte e obbliga a uno sforzo di messa in ordine, mantenimento e conservazione. Esiste la difficoltà a sopportare la vita e l’esistenza quotidiana nell’interno di un universo assediato e chiuso tra i monti, dominato da orizzonti ristretti, da silenzi assordanti e da una solitudine insopportabile.

Il contatto con realtà pericolose attrae il 48% dei giovani. La passione del rischio indica lo stato di imbarbarimento della società contemporanea, legato alla tendenza progressiva alla liquidità dei rapporti, una questione che non può prescindere dalla lenta evaporazione della funzione paterna.

La passione per il rischio risponde all’esigenza di estraniarsi da una società aliena, dal bisogno di trovare un’identità, di dare senso alla propria vita, di operare una anestesia emotiva di fronte agli attacchi di una società sempre più ostile e disumana, una sorta di miscela umana tra lo stato d’animo prometeico, come scrisse Freud, e la disposizione alla mediocrità. Solo chi non è al primo posto per nessuno come sostiene Hellen Deutsch esprime bene la drammatica verità affettiva dei nostri tempi. C’è una relazione tra tale svilimento del vivere e la ricerca del rischio? La ricerca di situazioni-brivido, in cui le misure di sicurezza sono di prim’ordine, viene sovente confusa con l’imbattersi in situazioni rischiose, che comportano la possibilità aleatoria del pericolo di una perdita reale. L’uomo non può più misurarsi con pericoli, non gli resta che cercare il rischio e confrontarsi nella piccolezza della sua esperienza.

È seguita la relazione di Camillo Fedele dal titolo “Potenziamento cognitivo e montagnaterapia tra visione e missione”. Per montagnaterapia si intende un originale approccio metodologico a carattere terapeutico-riabilitativo e/o socio-educativo, finalizzato alla prevenzione secondaria, alla cura e alla riabilitazione degli individui portatori di differenti problematiche, patologie o disabilità; esso è progettato per svolgersi attraverso il lavoro delle dinamiche di gruppo, nell’ambiente culturale, naturale e artificiale della montagna. Anche se i benefici dell’ambiente montano sono facilmente intuibili e noti fin da tempo remoto, è solo negli ultimi 20 anni che si è cominciato a mettere in relazione l’ambiente montagna con fattori più propriamente legati ad aspetti della scienza della riabilitazione. Le esperienze esistenti sono per lo più legate al contesto, alle risorse, alla formazione degli operatori, e alla tipologia di utenza, variabili e dai risultati non standardizzabili, frammentate, esperienze spesso virtuose, ma, specie nel passato, non strutturate nell’ottica riabilitativa. Sono presenti in letteratura comunicazioni, atti di congressi, relazioni di esperienze di eventi associativi, che non sempre hanno il carattere di conformità a un canone scientifico esso stesso in via di modulazione e riformulazione, secondo i principi della Medicina Basata sull’Evidenza (EBM). La montagnaterapia si occupa dell’età evolutiva, di pazienti psichiatrici, di pazienti con problemi nella sfera delle dipendenze, di anziani con maggiore o minore deterioramento cognitivo, di prevenzione. Nella diversificazione delle attività in montagna (trekking, arrampicata sportiva, alpinismo, speleologia, sport invernali, equitazione) trovano spazio dimensioni quali l’esplorazione, l’avventura e l’affermazione di sé. La montagna costituisce un luogo ideale dove è possibile applicare strategie cognitive precedentemente programmate in un contesto ordinario. Situazioni complesse, oggetto di supervisione. Rappresentazioni mentali ricche e concettualmente organizzate, legate alla natura e ai processi che essa alimenta. In montagna si realizza un contatto con spazi diversi da quelli abituali e nasce un confronto con un ambiente nuovo e sconosciuto. La curiosità viene alimentata dall’opportunità di acquisire conoscenze e competenze dell’ambiente naturale e della vita montana, mentre la corporeità dalla fatica, dal movimento e dagli stimoli sensoriali. Grazie al silenzio e alla solitudine si sviluppa l’interiorità. Il gruppo permette di condividere emozioni.

Paolo Calcioppo, geriatra del Distretto Sanitario di Lanciano, ha parlato di “Ipossia e invecchiamento cerebrale degenerazione o neuroprotezione?”. Il tempo scorre più veloce in montagna che in pianura. Due amici si separano, uno va a vivere in pianura, l’altro in montagna. Dopo anni si ritrovano: quello in pianura ha vissuto meno, è invecchiato meno. In basso c’è meno tempo che in alto (Carlo Rovelli, 2017). L’entropia è una variabile scomoda. L’ipossia d’alta quota è uno stressor entropico. L’invecchiamento è il progressivo deterioramento delle capacità omeostatiche e di adattamento all’ambiente in relazione al passare degli anni, una riduzione della resilienza. La salute umana è la capacità di adattarsi. Il relatore si chiede se ipossia e invecchiamento cerebrale siano una neurodegenerazione o una neuroprotezione. L’ormesi, dal verbo greco ormao, che significa stimolare, è una relazione dose/risposta, caratterizzata da un effetto bifasico: molti organismi/sistemi biologici esposti a un’ampia gamma di stimoli mostrano risposte opposte a seconda della dose; l’ormesi viene considerata una funzione adattativa. In numerosi stati patologici si verifica uno stato di ipossia: infezioni, stati di flogosi, malattie respiratorie (OSAS, BPCO), tumori, ictus, cardiopatia ischemica. Altra faccia della medaglia: l’ipossia come stressor ormetico. L’ipossia ambientale (soggiorni in alta quota) può avere un effetto favorevole sull’invecchiamento e la mortalità. L’esposizione controllata all’ipossia può rappresentare una strategia terapeutica per le patologie neurologiche correlate all’età. Gli adattamenti sistemici all’ipossia sostenuta e intermittente: aumento della ventilazione alveolare, della gittata cardiaca, dell’eritropoiesi e dell’angiogenesi (Teppems e Dahan, 2010). Si verifica una regolazione dell’espressione genica in risposta all’ipossia (fattori di trascrizione, hypoxia inducible factors, ossia i regolatori centrali dell’omeostasi dell’O2 e proteine antiossidanti). L’HIF Hypoxia-Inducible Factor è un mediatore e soppressore delle patologie neurodegenerative. I segnali HIF sono implicati nella patogenesi delle patologie neurodegenerative, pertanto, la modulazione dell’HIF è stata proposta come una strategia per prevenire o arrestare la neurodegenerazione. Una diminuita attività HIF è implicata nella malattia di Alzheimer. Con l’età si assiste a una riduzione del fisiologico aumento ipossia-indotto del contenuto dell’HIF-1-alfa, del VEFG (Vascular Endothelial Growth Factor) e dell’INOS (Inducible Nitric Oxide Synthase). L’Nrf2 Nuclear Factor 2 diminuisce con l’età e in modelli di roditori con Alzheimer, Parkinson e demenza vascolare. L’attivazione del Nrf2 è neuroprotettiva in modelli di Alzheimer di roditori e di Parkinson.

Esiste una correlazione tra mortalità per Alzheimer e altitudine. Le popolazioni che vivono in alta quota hanno una speciale protezione nei confronti della demenza. Neurodegenerazione e invecchiamento sono strettamente connessi ai meccanismi di risposta all’ipossia a livello cellulare, cerebrale e sistematico. I principali meccanismi della neurodegenerazione sono implicati nel normale invecchiamento: neuroinfiammazione, stress ossidativo e disfunzione mitocondriale. Brevi e ripetute esposizioni a ipossia lieve o moderata innescano adattamenti fisiologici che rendono gli organismi più resistenti a successivi insulti ipossici o ischemici. Vi è un effetto cardio e neuroprotettivo della HIC (Intermittent Hypoxia Conditioning). L’HIC è efficace nelle malattie cardiache, respiratorie e neurologiche. L’HIC aumenta la resilienza cellulare allo stress ossidativo, ischemico e proteotossico, prevenendo lo sviluppo di insulti ipossici e ischemici e la patologia amiloidea. L’HIC rappresenta un potenziale trattamento per le patologie neurologiche, particolarmente per quelle neurodegenerative.

 

6.08.23