Sulle tracce dei primi

Giancelso Agazzi

 

 

In una fresca mattina di agosto, salgo con due amici nella valle d’Aviolo.

L’intento è di andare alla ricerca delle pernici bianche sui pendii aspri ai piedi del Baitone per vedere se si trovano ancora, nonostante i cambiamenti climatici.

La giornata è serena, ma tira un forte vento.

Lasciamo l’auto alla fine della Val Paghera e, dopo un’ora e mezzo di salita, raggiungiamo il rifugio Aviolo, non poco distante dall’omonimo lago. Sosta per un caffè e per salutare i gestori del piccolo rifugio. Ci ero già passato circa un mese prima in occasione del 59° Pellegrinaggio in Adamello, provenendo dal rifugio Garibaldi e attraversando il passo delle Gole Larghe, sotto un terribile temporale.

Lasciato il rifugio ci incamminiamo lungo il piano della val d’Aviolo fino a raggiungere l’osservatorio faunistico del Parco dell’Adamello. Dobbiamo attraversare una zona alquanto acquitrinosa. A questo punto prendiamo il sentiero che sale a sinistra in mezzo al bosco, lungo pendii scoscesi. Udiamo di tanto in tanto i fischi delle marmotte. Lo scorso inverno sono morte quasi tutte nelle loro tane a causa del freddo, non riparate dal consueto strato di neve che di solito le protegge. Alcuni esemplari sono stati reintrodotti nella vallata.

La giornata è stranamente fredda, tira un vento forte, gelido.

Dopo una ripida salita tra larici e pini sparsi, raggiungiamo una morena dove abbandoniamo il sentierino e proseguiamo verso i pendii situati ai piedi del Baitone. Per raggiungerli dobbiamo superare prati scoscesi e radi, alquanto pericolosi. Devo attraversare anche un nevaio ricoperto in parte da sassi caduti dall’alto. La parete nord del Baitone, un tempo ricoperta di ghiaccio, è ora quasi tutta roccia. Solo qualche tratto ghiacciato sopravvive al caldo. L’ambiente è severo e aspro, comunque di rara bellezza. Lande sperdute e dimenticate, che richiamano alla memoria i tempi eroici dei primi alpinisti ottocenteschi.

In basso si scorgono le acque color smeraldo dell’lago d’Aviolo e a Ovest svetta la cima della punta d’Aviolo, sopra il passo della Gallinera.

Ci portiamo poco alla volta sotto le pareti della bastionata rocciosa del Baitone.  In cresta, era passato il capitano Nino Calvi, quando aveva effettuato, nel corso della Guerra Bianca, l’attraversata invernale del Baitone. I suoi due nipoti, Nino e Santino Calegari, figli della sorella, me ne parlarono molti anni dopo, raccontandomi della sua natura solitaria e della sua morte, avvenuta in montagna il 17 settembre 1920, dopo la tragica fine dei suoi fratelli minori.

Qui erano di casa Arrigo Giannantonj (1883-1956) e Giovanni Battista Adami (1838-1887), tra i primi pionieri della montagna e uno tra i primi studiosi del gruppo del Baitone. Si presume che il Corno Baitone sia stato salito per la prima volta dal capitano Adami nel 1875, come riportato nell’annuario della SAT del 1878-1879.

Vi era stato anche il mio prozio Achille Camplani, salendo la punta Adami dal versante della Val Rabbia il 30 giugno del 1928 con Federico Frizzoni. Ed è proprio da lui che ho saputo di Giannantonj e della sua insofferenza nei confronti delle guide. Che si trattasse di insofferenza in realtà l’avevo dedotto io, quando il prozio Camplani mi disse che Giannantonj se ne servì un’unica volta, la sua prima volta, quando, il 6 giugno del 1908, affrontò la parete Ovest del Corno Triangolo, e, poi, mai più. Eppure di nuove vie e prime escursioni ne intraprese, successivamente, circa una cinquantina. E così come fu una gita alla cima Bocchetta che fece innamorare della montagna un ventiduenne Giannantonj, è stato il racconto delle sue imprese, per certi versi eroiche, ascoltato dalle labbra del mio prozio a far nascere in me la passione per le cime.

 

Nessuna traccia delle pernici bianche, ma, su alcuni pascoli magri molti sono i camosci che, alla nostra vista, scappano attraversando di corsa canali impervi. Sicuramente l’ambiente si è molto trasformato rispetto a quarant’anni fa. I fianchi della montagna sono solcati da infidi canali scavati dai sassi, dal ghiaccio che si è staccato più in alto e dall’acqua. Attraversiamo con una certa circospezione questi luoghi che destano inquietudine. Simone mi racconta quando, a caccia, un compagno era stato sorpreso da una scarica di sassi e di ghiaccio caduta improvvisamente dall’alto. Era riuscito a salvarsi riparandosi prontamente sotto un macigno, che Simone mi mostra, quando ci passiamo davanti, rabbrividendo al pensiero dello scampato pericolo. Avvistiamo ancora alcuni camosci e, poi, dopo un paio di ore cerchiamo di raggiungere di nuovo la vallata sottostante. Non ci sono sentieri ed è davvero difficile e pericoloso cercarsi un varco tra precipizi e macchie di ontani che celano i sottostanti salti di roccia. Qua e là alcuni camosci ci osservano incuriositi. Più in basso un maschio, tra gli ontani si ferma a guardarci, è confidente, e i raggi del sole del tramonto illuminano la sua superba bellezza. Poi si allontana, scomparendo in mezzo alla vegetazione.

Raggiungiamo (finalmente!) il sentiero, stavolta sicuro, che ci riporta al lago d’Aviolo. A pochi passi dall’osservatorio, tra i cespugli, un camoscio bruca tranquillo, e, strano, non si cura di noi