Trasgressioni sul Cristallo

Guido Ferrari ufficiale delle Truppe Alpine dovette affrontare un dovere ingrato: scoprire chi tradiva fraternizzando col nemico. Ma non ci riuscì (o non volle?)

Giancelso Agazzi

 

 

Si sa che nel corso della Guerra Bianca si sono verificati alcuni tentativi di pace separata sulle vette o sulle postazioni dove italiani e austro-ungarici si fronteggiavano. Dopo mesi e mesi di guerra e di stenti e in postazioni incredibili, in alcune zone recondite del fronte, si erano stabiliti contatti e quasi amicizie. In alcune ridotte la distanza tra le truppe di fronti opposti era di pochi metri.

Tra le tante informazioni che giravano, si era diffusa la notizia che sul Cristallo (Hohe Schneid) vi erano degli strani scambi. Il Cristallo è una imponente montagna di ghiaccio e roccia calcarea. Ha la forma di una lunga e dentellata cresta nevosa, che si erge a strapiombo con una grandiosa parete scoscesa che parte dalla valle del Braulio fin verso la testata della Val Zebrù, a 3434 metri di quota in alta Valtellina. Mio zio Guido Ferrari, ufficiale delle truppe alpine, si trovava allora nel giugno del 1917 di stanza sul passo del Gavia al Battaglione Mondovì. Venne destinato sulla cima del Cristallo per controllare alcuni movimenti sospetti. La cosa non è che gli piacesse molto. Sarebbe stato un compito ingrato, ma gli toccò salire fin lassù per controllare quegli strani movimenti. L’avamposto italiano era separato da quello austro-ungarico da una sottile cresta di neve della lunghezza di circa venti metri. In quel piccolo posto vi era una sola sentinella austro-ungarica all’ingresso delle gallerie sotto il ghiaccio, senza un muretto di protezione. La breve distanza che esisteva tra le ridotte italiane e quelle austro-ungariche rendeva, perciò, assai facili i contatti tra i due schieramenti e, poi, essendo più defilati i soldati erano meno soggetti a controlli. Guido Ferrari salì un pomeriggio di giugno in compagnia di alcuni alpini. Partirono dalla II Cantoniera della strada dello Stelvio, passando dal Filon del Mot. Una volta giunti al passo dell’Ables (3050 metri) ci volevano ancora almeno tre ore per raggiungere la vetta del Cristallo. Presso il passo era di stanza il “Nucleo autonomo sciatori del V° Alpini”, un’ottantina di uomini, comandati da 4 ufficiali. Dal passo dell’Ables a quello di Campo corre la Costiera del Cristallo (Cristallo Kamm) che raggiunge la maggiore altitudine a 3431 metri. Si doveva camminare in direzione dei contrafforti della montagna, facendo attenzione ai salti di roccia e ai canali ghiacciati, seguendo in parte un sentiero militare. Si inerpicarono lungo la cresta ovest, usando a volte corda, piccozza e ramponi, fino a raggiungere i primi baraccamenti militari. In alcuni punti si dovevano superare gallerie scavate nel ghiaccio o nella roccia e tratti attrezzati con corde fisse e scale a corda. La qualità di quest’ultima non sempre era buona e si doveva prestare molta attenzione a non scivolare o a far cadere sassi. L’ascesa alle posizioni del Cristallo era difficile. Alcuni tratti erano molto esposti. Numerosi furono gli alpini che vi trovarono la morte, precipitando dalla parete ghiacciata. Altri caddero colpiti dal fulmine nel corso di terribili bufere che investirono la montagna.

Il gruppetto era costituito da giovani, tutti bene allenati e raggiunsero con buon passo la meta prima di sera, illuminati dall’ultimo sole. Erano stati accolti da una giornata limpida. Solo qualche nebbia ricopriva in parte la Val Zebrù, mentre il sole era ancora abbastanza alto sopra la cima della Nagler. La guarnigione presente sul Cristallo non era stata informata dell’arrivo del Ferrari e si trovò a mal partito quando vide arrivare il gruppetto di Alpini. Subito i soldati sospettarono qualcosa, ma Ferrari, dopo essersi presentato al tenente Arnaldo Berni, ufficiale che comandava la postazione, disse che era salito fin lassù per effettuare dei rilievi e per controllare lo stato delle truppe. Sarebbe restato lì per il tempo necessario a svolgere il lavoro. Ferrari era un alpinista e da un lato non gli dispiaceva trascorrere qualche giorno su quella vetta, mentre il compito che gli era stato assegnato lo metteva in difficoltà. Era un uomo di indole buona, non un militare fanatico e prendere posizioni dure contro gli Alpini non gli sarebbe piaciuto per niente. Ma non poteva sottrarsi al suo dovere. Prima di partire per il Cristallo si era studiato per bene il Regolamento Militare di Guerra. Per alcuni giorni se ne stette in disparte, facendo finta di osservare i luoghi, studiando le vicine postazioni del nemico. In realtà cercava di comprendere i movimenti dei soldati, ascoltando, in disparte, anche i loro discorsi. Era in un certo modo preoccupato. Qualche alpino squilibrato o risoluto avrebbe potuto, infatti, sorprenderlo e, dopo avergli dato una spinta, farlo precipitare giù lungo i pendii ripidi della Val Zebrù. I contatti con le truppe avversarie avvenivano di notte ed è per questo che non era facile scoprirli. Il giovane tenente che comandava la postazione e che sarebbe caduto il 3 settembre 1918 sul San Matteo, sospettava che i soldati non agissero in modo del tutto lecito. “Guarda che non mi fai fesso, qui c’è qualche sotterfugio che non mi vuoi far conoscere” disse al suo attendente, Giacomo Perico. Da un lato capiva la situazione dei suoi ragazzi che vivevano per mesi a quelle quote, in condizioni di estremo disagio. Così cercava, in parte, di coprire le loro scappatelle, che i comandanti, nei loro confortevoli ambienti, volevano punire in modo esemplare. La vita lassù era molto dura, specie d’inverno, quando le azioni di guerra venivano sospese, quando i nemici erano il freddo, la neve, il ghiaccio. Il panorama di cui si godeva su quella ardita vetta era incredibile, ma si era in mezzo al ghiaccio, alle rocce e ai crepacci. Dalla cima del Cristallo era possibile osservare l’Adamello, il Gran Zebrù, il Cevedale, e pure i giganti delle Alpi, verso occidente, tra cui il Monviso, il Monte Rosa e il Monte Bianco. Di notte le sentinelle montavano di guardia e ogni tanto le pattuglie andavano in ricognizione sul ghiacciaio. Molti soldati italiani conoscevano bene qualche avversario che si trovava nei pressi. Qualcuno parlava italiano come loro, erano della valle di Sulden, della val di Sole o Venosta, si erano già frequentati prima dello scoppio della guerra. Erano guide alpine, cacciatori, pastori o commercianti di bestiame che bazzicavano i mercati di oltre confine. Il traffico di viveri pare avvenisse due volte alla settimana e durò per circa due mesi. La riserva di alimenti vari diminuiva, ma in realtà la cassa delle scatolette di carne sembrava sempre piena. Peccato che sotto  il primo strato, vi si trovavano solo scatolette di latta vuote.  Lo stesso accadeva per il vino: il bidone da dodici litri durava pochi giorni e veniva allungato con l’acqua. In questo modo il vino gelava in breve tempo ed era necessario raccontare un sacco di balle, per esempio, che la temperatura di notte, d’estate, scendeva al di sotto di 28° C. Lassù i soldati italiani si scambiavano derrate alimentari, pagnotte, pacchi di riso e fiaschi di vino in cambio di cognac, sigarette, scatolette di sardine, ma non solo. Parlavano degli amici comuni o dei parenti, di ciò che stava succedendo a casa.  Erano convinti che questi contatti non avrebbero recato alcun danno alle due parti che si fronteggiavano. Gli incontri avvenivano con più facilità con il brutto tempo, ma anche le notti di luna piena andavano bene. Gli episodi di fraternizzazione si verificavano con maggior frequenza nelle zone dove vi era minor sorveglianza. Il rischio di essere scoperti era piuttosto alto e avrebbe comportato un processo con l’accusa di tradimento e intesa con il nemico, passibile di fucilazione. Esisteva il tacito accordo di non sparare. Alcuni degli ufficiali che si erano avvicendati sul Cristallo negavano l’evidenza di questi contatti con il nemico, mentre altri lo sapevano e lasciavano correre. Era un aspetto piuttosto marginale della guerra, ma non per questo doveva essere ignorato, pensava tra sé e sé il Ferrari. Di notte si era alzato alcune volte per spiare le sentinelle che montavano di guardia, sfidando il freddo e il ghiaccio, ma non aveva trovato alcuna irregolarità. Gli Alpini erano diventati più sospettosi dopo il suo arrivo e stavano molto attenti. Avevano fatto in tempo ad avvisare gli amici/nemici, dicendo di interrompere momentaneamente gli scambi. Non riuscendo ad identificare alcuna evidente irregolarità e capendo che era difficile farlo e, non volendo mettere in difficoltà gli Alpini, il Ferrari si decise ad uscire allo scoperto. Chiese all’ufficiale comandante Berni di radunare i soldati della guarnigione per fare un bel discorso. Fece chiaramente capire a tutti che era al corrente di certi movimenti che si verificavano sul Cristallo specie nelle ore notturne, anche se non ne aveva prove tangibili. Fu nel corso di una notte che il tenente Arnaldo Berni sorprese l’alpino Gazzaniga a scambiare due fiaschi di vino con una vedetta austro-ungarica. Legatosi a una corda e tenuto in sicurezza da un alpino, aveva percorso l’esile cresta ghiacciata dominante la Val Zebrù. Ma, mentre i due alpini stavano facendo ritorno alle loro postazioni di guardia, si trovarono di fronte i due ufficiali Berni e Ferrari. Il Berni, imbracciato un moschetto, lo puntò contro il Gazzaniga. “Cosa devo farti?” gridò. “Non spari, signor tenente”, rispose il Gazzaniga. Giacomo Perico, attendente del Berni, gli tolse dalle mani il fucile, facendo presente agli alpini che nel frattempo si erano radunati, che avrebbe cercato di risolvere la faccenda. Gli alpini si erano accordati che, nel caso qualcuno avesse scoperto i loro movimenti, lo avrebbero tolto di mezzo, gettandolo nel vuoto, simulando un incidente. Berni e Ferrari incominciarono a gridare, minacciando di mandare tutti davanti al plotone di esecuzione per alto tradimento. I due alpini maggiormente colpevoli si misero a piangere disperati. Il Ferrari esclamò “Meritereste una rivoltellata nella testa”. A questo punto il Perico, rivolto ai due ufficiali, commentò: “Bella abilità uccidere una persona in questo modo, non vedete che siete sull’orlo del burrone? Ringraziate Dio che ci sono qua io, perché altrimenti sareste già in fondo alla val Zebrù. Noi siamo tutti d’accordo, ed anche voi due dovreste essere con noi. Si parla chiaro qui!” Fu un momento di grande tensione. I due ufficiali si guardarono in faccia e, poi, il Ferrari disse:“Rimaniamo amici, come prima!”. A distanza di anni il Gazzaniga affermò: “Avevo ventidue anni e non mi rendevo conto della gravità di quello che avevo fatto, ma il tenente Berni era veramente buono, un vero comandante di Alpini”. Ferrari non segnalò ai comandi i nomi dei due alpini, ma li mise in guardia, invitando tutti gli altri a non continuare tali attività pena il rischio di essere deferiti alla Corte Marziale, secondo quanto previsto dal Regolamento di Guerra. ”A buon intenditor, poche parole”, disse il Ferrari per tagliare corto e, allo stesso tempo, non essere preso per fesso. Dimostrò comprensione, ma fu inflessibile nel sottolineare i rischi cui i soldati sarebbero andati incontro nel tempo, se avessero continuato con le loro frequentazioni illecite. Dopo una settimana Ferrari fece ritorno al passo del Gavia per fare rapporto ai Comandi circa la sua missione sul Cristallo. Disse di non aver riscontrato alcuna irregolarità e di aver fatto un discorso molto chiaro agli Alpini, mettendoli in guardia da eventuali severi sanzioni nei loro confronti. Non so quanto le sue parole siano valse o siano state recepite, o a quanto siano servite per sensibilizzare gli animi di quei poveri soldati. Sulla cresta del Cristallo, per un certo periodo, si continuò a convivere con una reciproca tolleranza. Un sottoufficiale austro-ungarico pregò i soldati italiani di non porsi troppo in vista. Il suo comando gli aveva, infatti, chiesto perché non si facesse fuoco su bersagli facili e vicini. Qualche tempo dopo questi accadimenti un maggiore del comando italiano che stava salendo in teleferica al passo dell’Ables, si accorse che sulla vetta del Cristallo alpini e austro-ungarici stavano prendendo il sole sulla cresta, fuori dalle loro postazioni. Giunto al passo l’ufficiale avvertì le batterie di artiglieria del monte Forcellino. Gli artiglieri, che pure conoscevano ciò che stava succedendo sul Cristallo, tennero la prima salva di colpi un po’ più alta, un avvertimento per permettere ai soldati di ripararsi nelle gallerie. Da allora non si fecero più scambi, anche se le vedette d’entrambe le parti continuarono a parlarsi tra di loro, nonostante la guerra che aveva la pretesa di mettere l’uno contro l’altro gli abitanti della montagna.

 

L’episodio è liberamente tratto dal libro “Guerra sulle vette. Ortles-Cevedale  1915-18”, scritto da Luciano Viazzi, Ugo Mursia Editore, 1976