Il coraggio di cambiare

Un ricordo di Achille Camplani, che abbandonò la montagna per il convento

 

Quella mattina non si era alzato come faceva un tempo per andare in montagna. Non aveva preparato con ordine tutto ciò che gli sarebbe servito per una salita. Non aveva riposto l’occorrente con grande cura nello zaino. Era sceso dalla sua stanzetta per pregare nella cappella del convento, per meditare, per suonare l’organo. Era accaduto tanti anni prima: un bel giorno si era svegliato con l’idea di estromettere la montagna dalla propria vita, di rinchiuderla nella sua memoria, insieme alle emozioni intense che ogni volta gli regalava. Non era stato semplice né indolore. Si era fatto frate presso i Rosminiani, scegliendo una vita all’insegna dell’umiltà e della contemplazione. Aveva donato tutte le sue fotografie in bianco e nero, oltre settecento, dense dei ricordi delle sue salite, all’archivio fotografico del CAI di Milano, quasi per voler lasciare una traccia del suo passato di alpinista. Una pagina della sua vita giunta al suo epilogo, che, comunque, avrebbe ceduto il passo ad altre pagine di grande valore esistenziale.

Achille Camplani era un accademico del CAI, era mio zio, un fratello di mio nonno materno. Amava la bellezza, la pittura, la musica. Aveva un’intelligenza vivida e tanti interessi e amicizie. A lungo aveva praticato l’alpinismo, aprendo nuove vie sulle montagne della Valle Camonica e della Bergamasca, in cordata con arrampicatori allora di élite. Fu amico di Arrigo Giannantonj con il quale compì ascensioni di rilievo come, nel 1929, i Corni di Val Rabbia dal versante settentrionale. Ma qualcosa nella sua vita stava cambiando, forse tutto era cominciato quel giorno del luglio del 1929 in cui era caduto in un crepaccio sul Pian di Neve, nel gruppo dell’Adamello. Lì aveva fatto un voto a Dio.

Era sopravvissuto al fratello Nino (Giovanni), pure esperto alpinista, che il 13 agosto del 1912, giovanissimo, era caduto sulla cima delle Granate in Valle Camonica ed alla scomparsa della madre Erminia, morta, secondo la leggenda, di crepacuore, in seguito alla tragedia. Non potrei dire fino a che punto la morte del fratello lo avesse segnato. In una pagina sul libro del rifugio Brescia aveva scritto nel 1925 a proposito del fratello Nino: la sua tragica morte mi sarà sempre di ammonimento ed anche fiaccola viva nella fede alpestre. Aveva continuato ad arrampicare con grande determinazione, affrontando sfide e pericoli, a volte in solitaria, lungo vie difficili, mai percorse prima. Il 17 agosto del 1927, era salito sul luogo della disgrazia per porre una lapide insieme al professor Rocco Serini e ad altri amici del CAI, e lì aveva pronunciato un discorso toccante. Dopo di ché aveva continuato ad andare in montagna, ad arrampicare con passione sulle vette che amava. Si era, tuttavia, concluso un ciclo della sua vita e ne sarebbe incominciato un altro. Aveva voluto conoscere nel corso della giovinezza la vita mondana e, poi, si era voluto ritirare nel silenzio di un convento.

Ho raccolto parte dei suoi ricordi scritti nel libro della capanna Brescia, dove mio zio aveva soggiornato all’inizio dello scorso secolo per lunghi periodi. Era un tipo solitario e contemplativo. Potrebbe essere definito un ascetico esteta che non aveva saputo resistere all’idea di seguire un percorso ancora più intimistico di quello offerto dalla frequentazione della montagna. Mi è difficile capire una scelta così radicale, ma evidentemente qualcosa di straordinario era cambiato dentro di lui. Ammiro, però, il coraggio del suo gesto. Ho voluto cercare le relazioni di alcune sue salite importanti da lui riportate su riviste e bollettini del CAI, documentate da fotografie in bianco e nero. Il Cimon della Bagozza, l’attraversata delle Quattro Matte, la punta Adami, il Tredenus, il Frisozzo, il Re di Castello, la Cima Rossola e il Gellino, giusto per citarne alcune. Sono piacevoli da leggere e raccontano con eleganza e precisione tanti momenti interessanti. Dai suoi scritti si evince che vivesse il rapporto con la natura e, quindi, con la montagna con intensa spiritualità. Per lasciare ai posteri un ricordo del fratello prematuramente scomparso, gli aveva dedicato il nome di una cima nel gruppo dell’Adamello, da lui salita in una “prima” il 1° agosto del 1932 in cordata con Bramani e Saglio. La chiamò “punta Gianni”. La cima, costituita da un’esile cresta rocciosa a tratti affilatissima, posta a 3150 metri, si trova tra la Cima Laghetto e la Punta Prina e separa il bacino dell’Avio dalla testata della valle del Miller. Le relazioni da lui scritte sono servite per la realizzazione della prima edizione della guida dell’Adamello del 1954 di Silvio Saglio e Gualtiero Laeng. Di lui serbo un ricordo lontanissimo e un po’ appannato dal tempo. Parlava con l’erre moscia, era un uomo magro, piuttosto allampanato nella sua veste talare di colore scuro. Era colto, riservato e silenzioso. Le sue parole erano poche e sagge, come riporta padre Domenico Mariani dei frati Rosminiani che lo conobbe.  Allora, quando io ero ragazzo, mi incuteva una certa soggezione. Mi sarebbe molto piaciuto incontrare quel personaggio singolare, ma il tempo non me lo ha concesso. Una volta entrato in convento non aveva mai voluto parlare di alpinismo con i suoi compagni.  Così, per ben ventidue anni nessuno di essi seppe mai che quella figura taciturna e ieratica era stata un valente alpinista. Nell’archivio del convento è stato trovato un suo diario con delle pagine strappate. Vi sono contenuti solo pensieri e meditazioni di carattere spirituale. In convento si occupò di insegnamento, ricoprendo incarichi umili come giardiniere, sacrestano, manutentore tutto fare. Suonava l’organo e il piano in modo brillante. La sua vita ascetica trascorse tra Domodossola, Stresa e Arco di Trento, dove morì nel 1963 in solitudine a 68 anni. Ora è sepolto nel cimitero dei Rosminiani di Rovereto. Giulio Franceschini, storico del CAI di Brescia in un suo scritto lo descrive come un solitario della montagna e, probabilmente, anche della società in cui visse, preparandosi, per dirlo con le sue parole alla conquista di ben altre vette, più difficili, perché eterne.


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