INCONTRO 

di Giancelso Agazzi

Ero a fare trekking tra le vallate settentrionali del Ladakh, nel Nord dell'India. Mi ero accampato  con la guida e altri compagni non lontano da un villaggio di montagna, abitato da pastori. Una sera, per tirare l’ora di cena, mi venne l’idea di visitare il vicino abitato. Mi incamminai, godendo del silenzio e della distanza, non solo fisica ma anche emotiva, dalla mia vita di sempre. Attraversai un ruscello e fu allora che scorsi in lontananza alcuni yak, buoi tibetani che ben si adattano all’alta quota. Pascolavano placidi, simbolo ruminante dell’aplomb: mi pareva che niente avrebbe potuto scomporli.  Mai giudicare uno yak alla prima occhiata:  all’improvviso un grosso maschio – e qui si parla di mille chili di animale per due metri di altezza - alzò la testa e  mi guardò. Mi sembrò infastidito ma forse, sperai, mi sbagliavo.  Fu un attimo: si mosse verso di me, prima lentamente, poi via via più svelto e minaccioso. Rapido mi rigirai e mi misi a correre  verso il campo, ma il bestione non era intenzionato a demordere, era evidente che ci teneva (bellicosamente) ad avvicinarmi.  Continuava a guadagnare terreno, mentre io, cercando di aumentare il passo,  pensavo alle possibilità di cui potevo disporre per sottrarmi alle sue attenzioni e non rimetterci la pelle. Possibilità magre, a dire il vero. Immaginai, tra il divertito e il rassegnato, come i giornali italiani avrebbero parlato l’accaduto, se mai ci fosse stato uno spazio da riempire nelle pagine di cronaca: Medico alpino, appassionato di montagna, viene aggredito e ucciso da uno yak durante una vacanza sulle montagne dell’India.   Che avrebbero detto i bergamaschi?  “Pota, se l’è cercata”. (Per favore, questo no).   

Ma il destino aveva deciso per me circostanze più benevole. Giunto davanti al ruscello che io avevo già riattraversato, lo yak si arrestò provvidenzialmente. Quando con la coda dell’occhio lo vidi fermo, proprio fermo, tirai il fiato e rallentai la corsa, sempre però continuando a muovermi verso le tende. Mi girai ancora: l’animale era ritornato sui suoi passi, stava tornando al suo pascolo.  Quella notte, prima di cadere in un sono cupo e senza sogni, ripensai a lui, cercando di capire perché mi aveva seguito e perché poi aveva rinunciato ad aggredirmi. Forse voleva solo farmi capire che quello era il suo territorio e difendere le sue femmine, ma non era un violento.

Illazioni: io non so nulla della psicologia degli yak.