Echi dell’altro mondo

Tre personaggi speciali, sbucati dalla storia, mi accompagnano e si raccontano.

 

Quella mattina ero partito con l’idea di salire alla capanna Casati e, poi, alla vetta del Cevedale. Ero da solo, ma, all’improvviso, comparvero uno alla volta tre uomini. Tre figure che quei luoghi li conoscevano molto bene per averci vissuto per alcuni anni nel corso della Guerra Bianca.

 Il primo lo vidi appena scesi dall’auto, non lontano dall’albergo dei Forni. Lo notai subito seduto su uno dei sassi che il ghiacciaio, nel corso dei secoli, ha trascinato a valle, in mezzo a piccoli larici. Sembrava fosse lì da tempo ad aspettarmi, contento, finalmente di vedermi arrivare. Con la sua divisa da tenente degli Alpini, le scarpe con i chiodi, il bastone e il suo inconfondibile cappello, proprio come nelle fotografie del suo archivio. Era Guido Ferrari, un mio prozio. Mi abbracciò, era raggiante all’idea di potermi accompagnare su per la val Cedec, lungo l’itinerario che tante volte aveva percorso durante la guerra, sia d’estate sia d’inverno. Era sceso fin lì dall’Isla Persa, un paesaggio incantato al limite tra il ghiacciaio dei Forni e la vegetazione. Era desideroso di raccontarmi tante cose. Ci incamminammo di buon passo su per il sentiero che porta verso il rifugio Pizzini, al tempo della guerra capanna Cedec. Ero contento di vederlo, per chiedergli quello che, da ragazzo, non avevo mai osato domandargli. Così incominciammo a parlare tra un passo e l’altro.

Il sole stava sorgendo dietro le Tredici Cime. Salendo lungo la valle, alle nostre spalle le cuspidi del San Matteo e del Tresero. Su quelle montagne Guido ci era stato più di cent’anni fa. Si meravigliava nel vedere i ghiacciai così trasformati, malconci. Allora, nel 1918, il fronte del ghiacciaio dei Forni scendeva ben più in basso.

L’11 maggio di quell’anno, al comando di una compagnia di Alpini, aveva conquistato la vetta di Cima San Giacomo, salendo per gli aspri pendii della val Cerena. L’azione era stata ideata per conquistare una posizione che sarebbe stata utile per la presa del San Matteo. Mi vennero in mente le fotografie che ritraggono quei monti e gli Alpini vestiti con le tute mimetiche di tela bianca, armati di piccozza e di ramponi. Era un appassionato fotografo, Guido, e riuscì a fotografare anche nel corso del conflitto. Mi confidò che avrebbe voluto partecipare a quelle battaglie combattute a oltre tremila metri, ma non era stato scelto per far parte degli attaccanti. Aveva conosciuto Arnaldo Berni, un giovane capitano degli Alpini caduto sul San Matteo e ancora sepolto tra i ghiacci con un gruppo di soldati. Giunti in vista della capanna Pizzini, Guido mi mostrò il passo dello Zebrù, situato alla testata dell’omonima valle. Più a nord la vetta del Gran Zebrù. Mi raccontò delle scaramucce che gli Alpini dovettero ingaggiare per tentare di prendere la cima presidiata dagli Austro-ungarici, senza mai riuscirci. Lui era stato nelle postazioni a nord della Capanna Milano, oggi rifugio 5° Alpini, al passo dei volontari e dei camosci alti. Aveva salito la Thurwieser e la Trafoier. Gli chiesi se non avesse mai avuto paura. Mi rispose di no: la montagna gli piaceva ed è probabilmente per questo che affrontò i pericoli della guerra in alta montagna con animo sereno. Mi raccontò del giorno in cui venne a sapere della morte della giovane moglie Ida, vittima dell’impietosa epidemia di influenza spagnola nel settembre del 1918. La notizia lo raggiunse mentre si trovava nella zona del passo del Gavia. Non fece in tempo a salutarla per l’ultima volta.

Giunti sul piazzale della capanna Pizzini mi mostrò le posizioni in cui erano attestati i soldati austro-ungarici, dove ora sorge la capanna Casati. Mi raccontava delle teleferiche costruite nel corso della guerra, senza alcuna attenzione alla sicurezza, per cui salirvi era assai rischioso.

Il passo di Guido era spedito e in poco meno di due ore giungemmo alla capanna Pizzini, dove mi attendeva un altro compagno. Lo vidi appoggiato alla staccionata di legno posta intorno al rifugio. Dal fregio della Sanità che portava sul cappello capii che si trattava di un capitano medico. Mi si avvicinò, mi salutò in modo cordiale e, poi, si presentò. Nel 1915 era stato mandato a prestare servizio in val Zebrù. Mi aspettava con una certa impazienza. Io rimasi stupito nel vederlo. Guido si era nel frattempo dileguato senza neppure un cenno. Quell’ufficiale medico era Ugo Cerletti. Ne avevo sentito parlare perché era stato un neurologo di fama, che, tra l’altro, aveva inventato l’elettroshock, metodica che lo rese famoso, ma che, fin dal primo momento, suscitò molte polemiche. Quella mattina era comparso lì davanti al rifugio. Mi volle accompagnare fin su alla capanna Casati. L’incantesimo continuava. Ero solo un pò rattristato per il fatto che Guido se ne fosse andato così in fretta. Cerletti volle solo bere un caffè prima di intraprendere la salita che porta al rifugio Casati. Appena iniziammo a percorrere il sentiero, mi chiese chi ero. Come seppe che ero stato ufficiale medico degli Alpini dimostrò compiacimento. Mi raccontò che nella sua vita era stato spesso osteggiato a causa della sua passione per le invenzioni. Un sognatore pratico ed entusiasta, era partito volontario per la guerra a quasi quarant’anni. Mi parlò delle azioni alle quali aveva partecipato in qualità di ufficiale della Centuria Valtellina, come l’ardimentosa presa della Tuckett. Aveva ideato la costruzione della strada della val Zebrù. Si dilettava di artiglieria. Aveva ideato progetti per colpire il nemico alle spalle. Aveva pensato di trainare due cannoni al passo dell’Ortler (OrtlerJoch). Salendo, si era fermato a un tratto per mostrarmi il percorso fatto la notte del 15 settembre del 1915 con gli Alpini della Centuria Valtellina per trascinare su tre slittoni un cannone fino ai piedi del Gran Zebrù, appena sotto il Passo della Bottiglia. Lo scopo era di bombardare la Shaubach Hütte, base degli austro-ungarici, nella valle di Sulden. Mi disse che in qualche occasione aveva fatto a fucilate con gli Imperiali. Chissà se se ne era mai pentito. Quale medico non avrebbe mai dovuto sparare. Il medico che fa uso, infatti, delle armi in guerra, se fatto prigioniero, viene subito fucilato. Era abituato a portare il fucile e il cappello da alpino e non quello della Sanità Militare per non essere bersaglio dei cecchini austro-ungarici che preferivano sparare agli ufficiali prima che ai soldati. Quando gli Imperiali ti sparavano addosso, mi disse, imbracciare il fucile e fare fuoco era un tipo di reazione immediata che non concedeva esitazioni. A mano a mano che si saliva lungo l’erto sentiero tra le rocce, Cerletti ogni tanto si fermava per ammirare lo scenario. Durante una di queste soste mi mostrò il posto, sotto il Passo della Bottiglia, dove era sceso per controllare il cavo del telefono che si era guastato. Gli Austro-ungarici lo avevano visto dal passo del Cevedale ed avevano incominciato a prenderlo di mira. Lui, incurante di tutto, continuò nel suo lavoro, tentando di riparare con del nastro isolante il cavo che si era in più punti scortecciato contro il margine affilato di un crepaccio. Nonostante le insistenze del tenente Santini, che gli fece segno con le braccia per farlo risalire immediatamente, ma lui aspettò un po’ per mettersi al riparo dalle fucilate del nemico. Mi mostrò dove era appostato il tenente Bertarelli con un manipolo di Alpini, tra le rocce della Kreil e del Schroetterhorn. Non fu possibile colpire a cannonate la Shaubach. La luce del giorno avrebbe, infatti, permesso ai nemici di colpire le colonne di Alpini che, sebbene partiti di notte, si trovavano ora allo scoperto sul ghiacciaio in pieno giorno. Il cannone da 76 da sbarco Ansaldo non poté essere trasportato fino al passo. Ma da una posizione più bassa, nascosto dietro ad alcune rocce, si mise a sparare granate sulle trincee austro-ungariche del passo del Cevedale. Bertarelli, più in alto, colpì, nel frattempo, con i suoi soldati i Kaiserjäger che stavano accorrendo dalla Shaubach, nella valle di Sulden.

Dall’alto vedevamo la capanna Pizzini allontanarsi poco alla volta. Cerletti mi raccontò di quando, nel 1915, per rappresaglia all’attacco italiano, la capanna venne incendiata dagli Austro-ungarici e, poi, ricostruita dagli Alpini in un luogo più sicuro, più riparato dalle cannonate.

Mi disse della spoletta a scoppio ritardato, che aveva inventato e che tanto lo aveva impegnato e reso famoso. Un progetto che lo impegnò per parecchio tempo, che lo vide, tuttavia, fronteggiare il disinteresse e la diffidenza dei generali che non riuscivano ad accettare il progetto ideato da un medico, quindi, da un incompetente.

Era rimasto molto amareggiato quando nel 1916 venne trasferito dall’Alta Valtellina al Cadore, all’ospedaletto da campo 42, posto ai piedi delle Tre Cime di Lavaredo. Avrebbe preferito rimanere, da buon valtellinese, su quelle montagne, ma i comandanti lo vollero trasferire probabilmente a causa della sua eccessiva intraprendenza. Era considerato un rompiscatole.

Cerletti fu anche un valente fotografo e di quei luoghi serbava molti scatti.

Dopo poco più di due ore e tanti ricordi, giungemmo in vista della capanna Casati (3254 metri) ai piedi del Cevedale e al confine con la val Martello. Qui scorsi sul piazzale antistante il rifugio un ometto con i baffi, con due occhi vivaci, che pareva mi stesse aspettando. Lo riconobbi, era Giuseppe Tuana Franguel. Cerletti, che lo aveva conosciuto alla capanna Milano nel 1916, gli strinse la mano, poi si congedò.

Tuana, l’intrepido signore dell’Ortler e del Cevedale, era stato il comandante della Compagnia delle guide ardite della Val Zebrù, aggregata alla 48^ compagnia del Tirano, un reparto specializzato nei combattimenti in alta quota (3000-4000 metri). Anche lui era partito volontario. Quel giorno mi avrebbe accompagnato fin sulla vetta del Cevedale. Era vestito come si abbigliavano le guide di inizio ‘900, con il cappello, la corda di canapa a spalla, la piccozza in una mano e i ramponi già calzati. Aveva in spalla un vecchio zaino. Era impaziente di accompagnarmi su quei ghiacciai. Mi venne incontro allegro. Subito dopo la Guerra Bianca si occupò della ricostruzione della capanna Pizzini, e della costruzione della capanna Casati, inaugurata nel 1924. Per anni era stato il gestore di questo rifugio appartenente alla sezione del CAI di Milano. Quelle montagne non avevano segreti per lui. Il tempo di bere un té al rifugio e, poi, via di nuovo lungo la vedretta del Cevedale. Ero consapevole che mi stesse accompagnando una guida di eccezione. Prima di camminare sul ghiacciaio Giuseppe mi legò in cordata e controllò che tutto fosse in ordine, la corda e i nodi. Salendo mi raccontò dell’amarezza provata quando la cima dello Scorluzzo, una posizione assai strategica, situata sopra il passo dello Stelvio, venne conquistata dagli Austro-ungarici e rimase in loro possesso fino alla fine della guerra. Il monte Scorluzzo (3094 metri) domina la valle del Braulio, di Trafoi, la vedretta del Cristallo, il versante del Livrio, e della cima Madatsch. Da buon bormino non sopportò che i comandi italiani si fossero lasciati scappare quella cima così importante.

Tuana era ancora molto prestante e camminava forte. Formidabile tiratore e cacciatore di camosci mi parlò di Peter Toni, vecchio antagonista nella caccia di montagna, che combatté con gli Austro-ungarici. Guardando le cime che ci stavano intorno, si mise a parlare delle innumerevoli azioni di guerra cui aveva partecipato, in particolare sulla Thurwieser, sulla Trafoier e sul Gran Zebrù, spesso in compagnia del capitano Guido Bertarelli. Alcuni amici di Tuana dovettero combattere tra le file dell’esercito austro-ungarico, come la guida alpina Giovanni Giuseppe Pinggera di Sulden.

In due ore circa raggiungemmo la vetta del Cevedale (3757 metri), dove si trova una baracca austro-ungarica. Appena giungemmo sulla cima Tuana mi porse la sua mano per stringere la mia. Poi, iniziammo la discesa per far ritorno alla Casati. Prima di giungere al rifugio mi mostrò dove l’esercito austro-ungarico aveva piazzato tre pezzi di artiglieria pesante 149 G, abbandonati dagli Italiani durante la 12^ battaglia dell’Isonzo (24 ottobre-11 novembre 1917). Gli obici vennero caricati su slitte di legno e trasportati in quattro mesi da 120 uomini lungo la val Martello fino all’Eiskofel il 14 giugno del 1918.  Ora ne è rimasto solo uno, a una ventina di minuti dal rifugio.

Anche Tuana mi salutò e io non feci neppure in tempo a ringraziarlo che già non lo vedevo più. Erano tornati tutti e tre nella Storia. Anzi nella leggenda.