Quando si passava di là

 

Giancelso Agazzi

 

In una tiepida giornata di marzo salgo con gli sci ai piedi lungo i pendii del monte Avaro. A qualche centinaio di metri dalla strada dove ho lasciato l’auto trovo una vecchia baita. È quella dove mio padre trascorse, durante la seconda guerra mondiale, alcuni mesi tra i partigiani, che si erano nascosti qui, subito dopo l’8 settembre 1943. Erano scappati per sfuggire ai nazi-fascisti. Mio padre era un grande appassionato di caccia in montagna e si era rifugiato qui anche per questo. Con le prede poteva, talvolta, dare da mangiare agli amici partigiani, che apprezzavano molto la selvaggina. Erano un bel gruppo ed erano giovani.

 Attualmente la strada raggiunge i piani di Avaro, ma, a quei tempi, si doveva camminare più di due ore per arrivare da Ornica o da Cusio a quei pascoli appena fuori dal bosco.

Salgo piano e rispolvero tempi lontani. Il ricordo è ancora vivo, quando, con mio padre, da ragazzino, venivo qui a caccia. Lunghe camminate, per me interminabili, oggi più che mai inconcepibili per un ragazzino di 8 anni. D’estate si veniva per individuare le covate di coturnici o di pernici bianche, e, poi, in autunno, era il momento della caccia. Il luogo è stato trasformato dai cambiamenti e dal progresso. Me lo ricordo come un paradiso, un luogo selvaggio e magico.

 Da mio padre ho imparato ad amare la montagna e la caccia, anche se, a volte, a caro prezzo. Non era facile per un bambino accettare levatacce, il gelo nelle ossa e le camminate che sembravano non finissero mai. Erano i tempi in cui dire di no non era possibile. Si partiva all’alba e si camminava tutto il giorno. Prima di giungere all’auto ci si fermava a salutare Cesara Ruffoni e la nuora Letizia che gestivano un alberghetto a Ornica. Era una tappa obbligata. Si beveva qualcosa e, poi, si andava.

Portavo i calzoni corti di pelle, il cappello tirolese, il bastone e lo zainetto. Mio padre davanti con il cane da caccia e io subito dietro, in silenzio nel buio del primo mattino.

 Passo dopo passo, raggiungo la vetta del monte Avaro. La giornata è limpida, nonostante un forte vento che spazza le creste e che tenta di buttarmi in terra. Continuo verso la cima di Salmurano, attraversando i fianchi del Monte Valletto. Sono tutti luoghi che ho conosciuto in giovane età e che mi fanno rivivere tanti momenti.  Una buia mattina di novembre, durante una forte nevicata, eravamo a caccia di coturnici proprio nella zona dei piani di Avaro. Faceva molto freddo e mio padre mi aveva lasciato ad aspettarlo in una baita dopo aver acceso il fuoco; al ritorno aveva con sé tre coturnici. Mi ricordo la felicità e la soddisfazione. La femmina di setter, bagnata e stanca, si era sdraiata accanto al camino. Io ero infreddolito, e contento che la caccia si fosse conclusa oltretutto bene. Si poteva tornare a casa (finalmente) contenti.

 Mi ricordo quando, un mese di settembre, salendo lungo i tiepidi fianchi meridionali del Monte Valletto, mi ero trovato inaspettatamente a tu per tu con una vipera; è immaginabile lo spavento. Solo il sopraggiungere di mio padre mi aveva tolto dall’inquietudine di un imprevisto che non sapevo gestire. Era come se lo sguardo del rettile mi avesse ipnotizzato, annullando la mia capacità di reazione.

Pare che abbia percorso questi luoghi già nel grembo di mia madre, quando a volte seguiva mio padre a caccia in autunno; non avevo perso tempo nella frequentazione delle montagne.

 Giunto sulla cima di Salmurano, sopra l’omonimo passo che scende in Val Pescegallo, il vento soffia gagliardo e spazza l’atmosfera, trasportando in alto con le folate gelide la polvere di neve. Di fronte a me le Foppe di Pescegallo, sopra Gerola Alta, e, più lontano, le montagne della val Masino: il pizzo Badile e il Cengalo tra le tante vette. Ora ci sono gli impianti di sci, ma alcuni decenni fa, la val Gerola era selvaggia e la strada arrivava più in basso. Mangio qualcosa e, poi, incomincio la discesa. Scorgo alcune tracce nella neve che scendono dal monte Valletto. Più sotto le impronte vecchie lasciate sulla neve da una lepre bianca. Salgo al monte Triomen e da qui posso ammirare il Ponteranica e la cima del Valletto. Più a est la valle che sale a Ca’ San Marco con l’alpe Ancogno, e, a ovest, la cuspide del Pizzo dei Tre Signori ed il Pizzo e il Torrione di Giacomo, le baite della Croce e di Scioc, il bosco dell’Avaro, un tempo un luogo piacevolmente selvaggio, habitat ideale per il gallo forcello.

All’orizzonte, emergente da una spessa bruma, la dorsale appenninica.

Ora, le coturnici e le pernici bianche sono quasi scomparse da qui, ma non dal ricordo.