Morte di un uccellatore

Era il 3 novembre del 1966 e Martino doveva scendere a valle, ma quel giorno il tragitto, per lui più che noto, gli faceva paura. Premonizione o cautela? non è dato da sapere.

 

 

Giancelso Agazzi

 

Era nevicato tutta la notte ed al mattino un’abbondante coltre bianca ricopriva i fianchi della montagna. Si sentiva quasi l’odore tenue della neve fresca. Abbastanza inconsueta una nevicata di simili proporzioni in novembre. In poche ore la bufera aveva completamente cancellato, coprendoli, i colori rossi e gialli dell’autunno, facendo presagire la venuta severa dell’inverno, ormai alle porte. Anche la temperatura era cambiata improvvisamente nello spazio di poche ore. Al mattino alcuni stormi di viscarde, le cesene in italiano, innervosite passavano alte senza fermarsi e senza dare retta agli stentati canti dei richiami, cacciate dal freddo e dai primi rigori dell’ambiente invernale. Le nebbie, salendo dal fondo valle lasciavano poca visibilità, permettendo di vedere ben poco. L’Arera era in parte visibile, tutta bianca e carica di neve. Sul versante opposto della vallata a stento si intravedeva uno dei roccoli situati sopra Roncobello. I richiami, intirizziti dal freddo non avevano molta voglia di cantare. In simili condizioni è difficile far funzionare un roccolo di montagna. I rami delle piante del roccolo erano piegati sotto il carico della neve fresca, e a stento erano visibili le bacche rosse del sorbo. La rete era ritirata nell’ apposita custodia ed il profilo del tondo fatto di pali ricoperti di rami di mugo era ben evidenziato dai magici disegni della neve, che tutto dipinge e modella. In poche ore tutto cambia in montagna con l’arrivo della bufera. Gli animali sono ai ripari, sorpresi dalla novità della coltre candida. Vicino al roccolo la traccia di una volpe in cerca di cibo durante la passata notte e più in là, verso il passo Branchino, le impronte di una lepre bianca. Più in basso, sotto il Corno Branchino, tra i rami del bosco un capriolo vagava, timido, a stento in cerca di cibo, mentre dalle fitte mugaie della costa sopra le baite di Mezzeno saliva lontano il canto di un gallo forcello. Anche i camosci erano scesi più in basso, spinti dall’abbondante nevicata, in cerca di cibo. Nei giorni precedenti numerosi uccelli migratori erano passati, anticipando il maltempo e molti erano caduti tra le maglie delle reti del roccolo. Anche le coturnici erano saggiamente scese nel bosco per porsi al riparo dalle intemperie e per trovare più cibo. La pozza dell’acqua era gelata.  Era il 3 novembre 1966 e Martino doveva scendere a valle. Il passo di uccelli era ancora buono, e la stagione tutt’altro che finita, ma dopo una lunga permanenza era necessario scendere a valle per vari motivi: per portare gli ultimi presicci, per rifornirsi di alimenti, per ritornare in famiglia, per stare qualche ora con gli amici, non ultimo per il rischio della caduta di altra neve, con un certo pericolo di distacco di valanghe. Qualche giorno prima era passato un cacciatore con il suo cane da ferma ed aveva fatto una breve visita al roccolo per scambiare quattro parole. In questa stagione i pastori sono scesi ormai da tempo e rare sono le visite al roccolo. L’impianto si trova a circa 1800 metri di quota, ben oltre il limite della vegetazione. Oltre il passo si incontrano il lago Branchino, ormai in parte gelato, e, più in basso, ad un’ora di strada, il rifugio Alpe Corte Bassa da tempo chiuso.

Martino lascia i richiami ed il registro delle catture nella stanza più alta del roccolo. Dovrà provvedere, al ritorno, anche all’ approvvigionamento di legna.

Alcuni lucherini si attardano e giocano sui rami di ontani più in basso ed un ciuffolotto, un po’ curioso, se ne sta a debita distanza dal roccolo, cantando. È ora di scendere. Martino è un po’ preoccupato per la neve che carica i pendii ripidi che dovrà attraversare, ma non può esitare.

Nel frattempo riprende a nevicare. Come è bello il paesaggio alpino quando scende la neve: tutto sembra cancellato. Anche i rumori sono attutiti o ovattati. Martino scende carico ed incomincia a calpestare le neve ormai abbastanza alta. Ha sulle spalle un discreto carico. É un po’ teso, ma deve scendere. Non ha calcolato che verso la tarda mattinata la temperatura è più alta, e incrementa il rischio del distacco di valanghe, ma non è la prima volta che affronta condizioni atmosferiche avverse. Incomincia lentamente a scendere lungo un percorso che ha fatto per decine e decine di volte, quasi sempre molto carico. Pensa alle mille albe trascorse al roccolo ascoltando il canto degli uccelli di richiamo, quando il sole, nelle limpide mattine di autunno, illuminava, tingendole di rosa, le cime calcaree dei monti sovrastanti. Quante emozioni e quante fatiche; non c’ erano strade e tutto andava trasportato a spalle o con il mulo. Vivere in un roccolo di montagna a circa 1800 metri di quota è abbastanza duro.  Ricorda quando era ragazzo ed imparava il mestiere dell’uccellatore da chi era più vecchio ed esperto. Assorto tra mille pensieri e ricordi, Martino giunge al passaggio più critico. Si trova, infatti, a dover attraversare i pendii ripidi che scendono dal Corno Branchino, prima di incontrare il bosco.

Un attimo di esitazione e, poi, via deciso, attraversando il canale più pericoloso. Giunto a metà gli sembra di essere finalmente fuori, ma, all’ improvviso sente un rumore forte e sinistro, una specie di boato: la neve, tagliata dal peso del suo corpo e molto instabile, si stacca e lo travolge, facendolo precipitare verso il basso. Martino tenta di stare a galla e fa di tutto per salvarsi, ma altra neve lo travolge dall’alto. In breve il suo corpo sparisce nel canale e viene coperto e inghiottito da una nube bianca. La slavina precipita velocemente verso il basso. Subito dopo ritorna il silenzio e l’acqua del fiume, molto più in basso continua a scorrere. A sera viene dato l’allarme. Si mobilitano i soccorsi, ma il corpo di Martino non viene ritrovato. Riapparirà in primavera nel periodo in cui le nevi si sciolgono.

 

Nota: Il racconto è romanzato, ma fa riferimento ad un episodio realmente accaduto.

Chi sale al Passo Branchino dalle baite di Mezzeno, incontra subito dopo la base del Corno Branchino una piccola lapide che ricorda lo sfortunato uccellatore, proprio ai margini del canale in cui è stato travolto dalla slavina.