BAMBINE E BAMBINI IN QUOTA: SE NE È PARLATO A BERGAMO

Lo scorso maggio, presso la sala congressi del Palamonti, si è svolto il primo convegno sul tema della frequentazione della montagna in età evolutiva. Lo ha organizzato la Sezione locale del CAI e ha visto la partecipazione di numerosi relatori.

 

Si è svolto a Bergamo, presso la sala convegni del Palamonti, sabato 18 maggio 2024 il convegno “Bambine e bambini in montagna”, organizzato dalla Commissione Medica della Sezione del CAI locale.

Dopo i saluti del presidente Dario Nisoli e dell’assessore alle politiche sociali del comune di Bergamo Marcella Messina, ha preso la parola la prima relatrice Annalisa Cogo, pneumologa dell’Università di Ferrara, con una presentazione dal titolo “Adattamenti fisiologici alla montagna”. Salendo in quota si assiste a una diminuzione della pressione barometrica, della densità dell’aria, dell’umidità, della temperatura, della quantità di allergeni e degli inquinanti. Aumentano, invece, le radiazioni solari e la ventosità. La saturazione di ossigeno si riduce, e, di conseguenza, la capacità di effettuare esercizio fisico. Salendo in quota compare una vasocostrizione polmonare. La cascata dell’ossigeno è parzialmente ridotta e vi è iperventilazione.

Pochi sono gli studi effettuati sui bambini in quota. I polmoni e il torace di bambini che crescono in alta quota sono aumentati. La frequenza cardiaca è più alta. Cogo ha ricordato i bambini che sono saliti fino al campo base dell’Everest. Esiste un sito nel web che fornisce alcune indicazioni per i bambini che volessero visitare il campo base Nord dell’Everest in Tibet. Tra i benefici lo sviluppo della resilienza fisica e mentale, l’approccio alla natura, alla cultura e alla diversità, l’interesse per la geografia e la geologia, la capacità di lavorare in gruppo (team work) e la socialità, la crescita e la scoperta di sé stessi. I bambini presentano, rispetto agli adulti, differenze anatomiche e fisiologiche che determinano risposte alla malattia e allo stress, come l’esposizione all’alta quota. Ciò è riferito in particolare ai neonati e ai bambini con meno di dodici mesi di vita. Uno studio realizzato in un gruppo di nove bambini sani tra i sei e i tredici anni a 3500 metri ha dimostrato una risposta cardio-respiratoria simile a quella di soggetti adulti, con un calo della SpO2, un incremento della frequenza cardiaca e una leggera diminuzione della capacità vitale forzata (FVC). Tra i problemi da risolvere per i bambini che vanno in montagna: l’acclimatazione, l’AMS, l’esposizione al freddo e ai raggi UV, l’allenamento, il calcolo delle distanze e i tempi, il peso dello zaino, l’idratazione, l’alimentazione, la presenza di patologie croniche, l’educazione dei genitori e degli accompagnatori. La montagna rappresenta una palestra ideale per i bambini. Le modificazioni ambientali in altitudine (riduzione di ossigeno, umidità, temperatura) oltre 2000-2500 metri obbligano l’organismo a mettere in moto meccanismi di compensazione. Gli effetti più evidenti e potenzialmente dannosi si verificano oltre 2500-3000 metri di quota (considerevole variabilità individuale). Gli infanti e i bambini presentano peculiarità anatomiche e fisiologiche che possono rendere la loro risposta diversa rispetto a quella degli adulti. I bambini sani oltre i sei anni di età presentano risposte cardio-respiratorie simili a quelle degli adulti. I dati a disposizione sono scarsi e mancano trial clinici.

Ermanno Baldo, pediatra di Rovereto, presidente del Gruppo di studio SIP di Pediatria di Montagna è, poi, intervenuto per parlare di “Asma, malattie allergiche e montagna”. Si discute molto del rapporto ambiente-salute. Il gruppo di malattie infiammatorie croniche che chiamiamo di tipo 2, che segna il nostro tempo (asma, allergie), è causato da inquinamento atmosferico, sovrappopolazione, deforestazione, uso eccessivo del suolo, pratiche agrocolturali irresponsabili e di allevamento. Gli effetti che ne derivano sono perdita di biodiversità, malattie epidemiche da cause ambientali (pandemie, zoonotiche) e malattie infiammatorie (infertilità, impatto sulla salute mentale). Il mondo è cresciuto a dismisura, con l’attuale presenza di dieci miliardi di persone. Si assiste a un aumento della mortalità causata dall’inquinamento, in particolare nella pianura padana, una delle aree del pianeta più a rischio. Il “tracking respiratorio” dell’età evolutiva rappresenta un indice di predizione. Alcune patologie respiratorie esordiscono durante l’infanzia e persistono fino all’età adulta. È stato descritto che bambini che hanno una funzionalità polmonare ridotta nei primi anni di vita la mantengono tale anche nell’adolescenza e in età adulta. Studi longitudinali che hanno seguito questi bambini fino all’età adulta hanno permesso di definire un indice di predizione dell’asma. Sono a rischio di diventare asmatici i bambini che presentano episodi ricorrenti di respiro sibilante e almeno una delle seguenti caratteristiche: genitori con storia di asma, storia personale di dermatite atopica. Tra i fattori di rischio ambientali: fumo di sigaretta, fumo passivo, inquinamento out e indoor, esposizione professionale, crescita del polmone, malnutrizione, infezioni respiratorie; fattori individuali: deficit di alfa-2-antitripsina, stress ossidativo, basso peso alla nascita, compromessa funzione respiratoria nei primi mesi di vita. Molti di questi fattori sono correlati all’età pediatrica. La storia naturale della funzione polmonare è segnata dalla crescita dalla nascita fino all’adolescenza, dopo di che la maggior parte degli individui raggiunge la massima funzione polmonare durante la terza decade di vita. Oltre tale periodo la funzione polmonare diminuisce con l’invecchiamento e con il rapido deterioramento che si verifica in alcuni individui a causa di fattori come il fumo. Il rapido declino della funzionalità polmonare è stato ritenuto fondamentale nella fisiopatologia della broncopneumopatia cronica ostruttiva (COPD), la terza causa di morte tra le nostre popolazioni. La funzionalità polmonare, dopo aver raggiunto un valore massimo a 18 anni, a circa 25 anni incomincia a ridursi in modo progressivo, con una diminuzione del FEV1 (parametro che indica la pervietà delle vie aeree) di circa 30 ml all’anno. Tra i determinanti della prima infanzia: fattori genetici, eventi perinatali, esposizioni ambientali, stile di vita, infezioni del tratto respiratorio inferiore e fenotipi persistenti di asma. Tra i fattori di rischio che riducono la crescita della funzionalità polmonare: predisposizione genetica, nascita pre-termine, carenza alimentare o di vitamina D, esposizione ambientale (inquinamento atmosferico), polmonite, atopia severa, asma persistente. La montagna deve essere considerata come un luogo privilegiato. Ciò grazie alle caratteristiche fisiche dell’altitudine e alle caratteristiche ambientali del clima alpino, per la qualità dell’aria e per il minore impatto dell’inquinamento, per la possibilità di sviluppare programmi di riabilitazione respiratoria in cui la promozione dell’attività fisica rappresenta un aspetto importante per la salute, specie nel corso dell’età evolutiva. Si verifica una minore incidenza di asma nei bambini e adolescenti residenti in alta quota. L’esposizione ad altitudini moderate ha un effetto positivo importante per i soggetti asmatici e su chi è broncolabile, grazie alla ridotta esposizione allergenica, con riduzione dell’infiammazione bronchiale e conseguente miglioramento. L’altitudine possiede un ruolo positivo nei confronti dell’asma. Che il soggiorno in ambiente alpino migliori le condizioni clinico-funzionali dei bambini affetti da asma è stato dimostrato in molti lavori effettuati presso l’Istituto Pio XII a Misurina a oltre 1700 metri di quota. L’asma è una delle malattie non trasmissibili più comuni e la sua prevalenza e morbilità sono influenzate da una vasta gamma di fattori solo parzialmente individuati.

Esiste una predisposizione individuale legata a background genetico e infezioni precoci. I fattori ambientali sono cruciali nel determinare l’impatto dell’asma sia a livello di singolo paziente, sia a livello di popolazione. Modifiche dei parametri di funzionalità polmonare sono state rilevate in misura statisticamente significativa tra gli adolescenti asmatici esposti ai monoterpeni. La medicina di montagna è in grado di evidenziare differenze e conoscenze riguardanti l’età pediatrica. La montagna per l’età pediatrica non rappresenta il luogo della sfida con sé stessi e con l’asperità della natura. In altitudine l’acclimatamento e le risposte adattive fisiologiche (iperventilazione e aumento della frequenza cardiaca) valgono anche per i bambini e per gli adolescenti. Dalla medicina alla pediatria di montagna emergono conoscenze e consigli per una frequentazione sicura e utile dell’ambiente montano. Ad altitudini moderate la riduzione dell’ossigeno è ancora contenuta e gli effetti positivi prevalgono su quelli negativi, legati all’eccesiva ipossia. L’aria è più fresca, meno umida e meno densa. L’inquinamento è molto ridotto o assente, così come è ridotta la presenza di allergeni. Infatti, la stagione dei pollini è più breve e il dermatofagoide fatica a sopravvivere in ambiente con ridotta umidità. La media montagna può, quindi, essere un ottimo ambiente per l’allenamento respiratorio per i bambini e gli adolescenti, età nelle quali il polmone è ancora in fase di crescita. L’attività fisica regolare in età pediatrica e adolescenziale è correlata a un migliore sviluppo del polmone e ad una migliore funzionalità polmonare anche in età adulta.

Francesco Meneguzzo, ricercatore dell’Istituto per la Bioeconomia del CNR di Firenze, ha parlato di “Foresta come terapia: effetti benefici dei terpeni”. Il bagno in foresta o “Forest bathing” (da “Shinrin-koku” in giapponese) è una pratica medica che prevede l’immersione in un ambiente di foreste per promuovere il benessere fisico, mentale ed emotivo. Si tratta di un coinvolgimento consapevole nella natura attraverso attività come la meditazione e passeggiate non guidate, vantaggiose per la salute.

La terapia forestale, disciplina molto giovane, ha un approccio più strutturato; prevede la guida di un professionista esperto, proveniente da diversi background (psicologi, istruttori di meditazione, guide naturalistiche ed educatori ambientali) che svolgono un ruolo nel facilitare le esperienze terapeutiche in ambienti naturali. Un progetto è partito nel 2019. Attualmente manca uno standard di formazione riconosciuto in tutti i paesi. Sono previste quote non superiori ai 2000 metri, in luoghi lontani da fonti di inquinamento. Il background delle guide di terapia forestale presenta una notevole eterogeneità. I benefici prodotti dalla terapia forestale aiutano a combattere gli stati di stress, la depressione, i disturbi d’ansia. Inoltre, migliora la funzione cognitiva (attenzione e memoria), gli indici neuroendocrini (ormoni dello stress), lo stato infiammatorio e ossidativo (interleukina IL-6, IL-8, citochine) e rinforza le difese immunitarie (cellule natural killer NK). Ma c’è di più: svolge una funzione preventiva e terapeutica, medicina complementare a vantaggio di pazienti affetti da svariate patologie. Le piante emettono composti organici volatili biogenici (BVOC) per proteggersi e comunicare (isoprene, monoterpeni, sesquiterpeni). Queste sostanze sono importanti per l’uomo in quanto solubili nel sangue (elevata assimilazione tramite inalazione), leggeri, in grado di superare la barriera emato-encefalica. Nei bambini hanno effetti positivi su socialità, depressione, ansia, autostima, stress, aggressività, rabbia e adattamento scolastico. Numerosi studi indicano che la presenza di spazi verdi di quartiere è legata a risultati positivi sul comportamento sociale dei bambini. Il verde durante l’infanzia viene messo in relazione con un minor rischio di sviluppo di disturbi psichiatrici. La terapia forestale stimola i cinque sensi, protegge l’apparato cardiovascolare ed è dose-dipendente. Va praticata due ore dopo l’alba e nel primo pomeriggio. Migliora la qualità del sonno e riduce l’ansia del 30%. Ha effetti positivi sull’asma.

Mattia Giovannini, pediatra dell’Ospedale Meyer di Firenze, ha parlato di “Allergie e cambiamento climatico: dalle conoscenze alla pratica clinica”. I bambini sono molto sensibili agli effetti provocati dal cambiamento climatico. I colpi di calore sono poco tollerati nell’età evolutiva, come le grandi quantità di acqua dovuti ad eventi estremi (alluvioni, uragani) che hanno un forte impatto psicologico, dovuto allo stress post-traumatico. L’alimentazione non adeguata può causare danni.  Il bambino dovrebbe trascorrere molto tempo all’aperto. Con l’avvento del cambiamento climatico sono arrivati nuovi vettori di malattie ora presenti in aree dove prima non esistevano, come il virus Zica. La “Epithelial Barrier Hypothesis”, in seguito alla distruzione dell’epitelio, predispone a malattie di tipo allergico e autoimmune. Occorre seguire l’“One Health Approach”, cercando di cambiare prospettive e punti di vista. È opportuno che il bambino segua stili di vita corretti.

Lorenza Pratali, cardiologa, prima ricercatrice del CNR di Pisa e Past President della SIMeM, ha parlato dei “Rischi dell’alta quota”. La relatrice ha illustrato le patologie che possono interessare il bambino che sale in quota, oltre i 2500 metri. Tra queste il male acuto di montagna (AMS), l’edema polmonare d’alta quota (HAPE) e l’edema cerebrale d’alta quota (HACE). Esistono vari tipi di HAPE: quello classico e quello da rientro tra i bambini residenti in alta quota. È importante che i genitori o gli accompagnatori sappiano riconoscere i sintomi di queste patologie. Un particolare tipo di Lake Louise Score è stato messo a punto per i bambini che salgono in alta quota per valutare il grado di acclimatazione. Pratali ha parlato della profilassi contro AMS, HAPE e HACE nei bambini con suscettibilità e dell’utilizzo del cassone iperbarico.

La relatrice ha parlato dell’utilizzo nel bambino dell’ecografia cardiaca e polmonare utile per effettuare uno screening prima di salire in quota. L’impiego di questi strumenti in regioni remote di montagna permette di diagnosticare HAPE e HACE soprattutto se vi è un’anamnesi positiva. Permette inoltre di riconoscere la presenza di un’ipertensione polmonare, di un forame ovale pervio o DIA/DIV, di un’atresia dell’arteria polmonare oppure di una stenosi delle vene polmonari. Si può effettuare uno stress test per i bambini predisposti ad HAPE. I bambini devono salire in quota in modo graduale, evitando di superare il 400 metri di dislivello nelle 24 ore oltre i 2000 metri di altezza. L’ossigenoterapia nei bambini è di difficile gestione; se non è possibile è meglio ricorrere alla terapia farmacologica. La relatrice ha citato l’ipertensione polmonare d’alta quota sintomatica (SHAPH) per la prima volta descritta a Lahsa, in Tibet, in bambini nati a bassa quota e trasferiti in alta quota. Pratali ha parlato del caso di un bimbo morto in culla in quota, una sindrome che ha un’incidenza inferiore all’uno per mille. Uno studio statistico effettuato in sei anni in bambini nati vivi a 2500 metri di quota ha evidenziato dieci casi di sindrome di morte improvvisa infantile.

Prima della partenza per un viaggio in quota è opportuna una valutazione dei dati anamnestici di ogni bambino. Importante è l’educazione dei genitori, degli accompagnatori e dei bambini stessi sulle malattie d’altitudine e gli altri rischi per la salute durante la gita in montagna. Si consiglia una preparazione adeguata degli accompagnatori sul primo soccorso con un kit per le urgenze e la disponibilità dell’ossigenoterapia. Va previsto un eventuale piano di emergenza e di evacuazione in caso di necessità. Si deve pensare a stipulare un’assicurazione medica e per l’evacuazione (estesa a tutti i partecipanti). Da tener presente che non esistono dati che indichino a quale quota vi sia una sicurezza assoluta per i bambini. Il rischio di AMS esiste per salite al di sopra di 2500 metri, soprattutto se sono previsti un pernottamento e una salita con mezzi meccanici. Ci si deve ricordare delle malattie preesistenti, che possono aumentare il rischio di patologie di altitudine. Nei neonati nel corso delle prime settimane di vita e, successivamente, nei lattanti, l’esposizione a quote superiori a 2500 metri per più ore può influenzare i normali pattern respiratori. Ciò può aumentare il rischio di AMS in particolar modo dormendo al di sopra dei 2500 metri. Alcuni autori francesi consigliano di non superare i 2000 metri al di sotto dell’anno di vita. Al di sopra dei 2500 metri di quota una salita di 300 metri al giorno e il riposo di un giorno ogni 1000 metri sono raccomandati. Uno studio effettuato in bambini tra i sette e i nove anni, nel corso di una salita lenta e graduale in quota, che ha riportato le variazioni della frequenza cardiaca e della saturazione arteriosa dell’ossigeno, ha dimostrato che i bambini sembrano acclimatarsi nello stesso modo, se non meglio, rispetto agli adulti. La profilassi con farmaci nell’infanzia dovrebbe essere evitata, poiché una salita più lenta raggiunge lo stesso effetto e minimizza l’uso di farmaci.

Andrea Locatelli, dermatologo dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, ha parlato di “Sole…portiamo a casa la pelle!”. I tumori della pelle sono i più frequenti tumori nell’uomo. Negli USA ogni anno il numero di tumori cutanei diagnosticati supera il numero totale di tutti i restanti tumori. Il 40-50% degli americani che raggiunge i 65 anni svilupperà un tumore della pelle. Statisticamente i tumori della pelle sono così distribuiti: 80% carcinoma basocellulare, 20% carcinoma spinocellulare, 5% melanoma, <0,001% tumore a cellule di Merkel. Il 90% dei tumori cutanei è causato dal sole. L’azione dei raggi solari ha un effetto immunosoppressivo. Le radiazioni ultraviolette determinano un danno diretto (dimeri di pirimidina) e indiretto (formazione di radicali liberi e immunosoppressione). La melanina è una forma di fotoprotezione naturale. Occorre prestare molta attenzione alle ustioni causate dall’esposizione al sole nel corso dell’età pediatrica.  Vanno valutati molto attentamente gli schermi solari, in particolare il Sun Protector Factor (SPF). Esprime il rapporto tra tempo di esposizione al sole prima di giungere all’eritema solare con la crema rispetto a “senza crema”. Con crema ad elevato fattore protettivo (alte concentrazioni di filtri protettivi) si può verificare un assorbimento sistemico delle creme solari. Una crema solare può andare incontro a problemi di stabilità nel tempo, con perdita di efficacia. Va verificata la protezione UVA (un terzo di protezione rispetto agli UVB). La crema solare induce una falsa sicurezza, ma non deve essere una scusa per esporsi al sole più a lungo. La protezione solare è particolarmente importante nei bambini. La cute dei bambini ha meno melanina (melanociti “immaturi”). In vitro su modello animale una singola dose di UVB in un topo neonato induce la comparsa di un melanoma e non nel topo adulto. A 18 anni un individuo ha ricevuto oltre il 50% della dose totale di radiazioni ultraviolette della sua vita. La cute del bambino è più sensibile ai danni del sole perché i melanociti e le cellule staminali epiteliali che si trovano nello strato basale dell’epidermide sono più facilmente raggiungibili dagli UVB nel bambino rispetto all’adulto. Il rischio di melanoma e di carcinoma spinocellulare è in funzione del numero di ustioni solari. Non avere eritema solare, comunque, non significa non aver subito danni biologici, nè aver bloccato le radiazioni solari. Le alte radiazioni hanno effetti biologici anche senza passare attraverso un’ustione solare. L’eritema solare è indotto dagli UVB. Gli UVA sono 1000 volte meno potenti degli UVB nell’indurre eritema o danno genetico. Gli UVA, però, giungono sulla terra in quantità 20 volte maggiore rispetto agli UVB. Gli UVA non sono inerti; producono un danno ossidativo indiretto sul DNA, producono danno senza causare eritema solare. Il paradosso è che bambini che usano molto schermo solare e che hanno meno ustioni solari hanno più nevi rispetto a bambini che non lo usano. Il paradosso del sole: coloro che sono più consapevoli dei rischi e adottano misure protettive si espongono anche più frequentemente alla luce solare.

L’esposizione di mani e volto per circa due ore alla settimana è sufficiente a garantire un fabbisogno giornaliero di vitamina D. Meglio l’approvvigionamento orale di vitamina D che non quello “foto-sintetico” che espone a rischi tumorali certi. L’assorbimento transcutaneo di topici nel bambino può essere fino a tre volte più elevato rispetto all’adulto (strato corneo più sottile, meno compatto; rapporto superficie/volume maggiore). Nel bambino non va utilizzata la crema solare su ampie superfici. Ogni anno finiscono in mare circa 15,000 tonnellate di schermi solari, con un trend in aumento.

In conclusione sotto i sei mesi non vanno messe creme solari. Quando è possibile è meglio prediligere protezioni fisiche (maglietta, cappello). Sulle aree “non copribili” applicare creme solari. Se non è possibile utilizzare protezioni fisiche per via del caldo, utilizzare creme solari. Utilizzare creme solari con protezione ad ampio spettro (SPF>30 e UVA). Utilizzare creme water resistent: tutelano meglio l’ambiente. Applicare ogni 3-4 ore.

Sono, poi, intervenuti Maurizio De Pellegrin e Dario Fracassetti, ortopedici pediatrici del Lifenet Healthcare di Milano, Piccole Figlie Hospital di Parma, che hanno presentato una relazione dal titolo “Il bambino e la montagna: considerazioni ortopedico-traumatologiche”. I due relatori hanno parlato dei principali traumi del bambino durante l’attività fisica, che avvengono per la maggior parte nel periodo estivo. Il 16% degli incidenti si verifica, invece, nel periodo invernale. Gli arti superiori sono le sedi più comuni di traumi nei bambini (26,9-74,2%); gli arti inferiori sono sede di traumi dal 5,9 al 38,8%. La testa e il collo, invece, dal 6,4 al 29,4%.

L’obesità favorisce gli infortuni a causa del sovraccarico a cui sono sottoposti gli arti. Con la diffusione della pratica dello snowboard sono aumentate le lesioni laterali dell’astragalo, mentre con l’utilizzo dello slittino sono più frequenti le fratture vertebrali multiple.  È buona cosa l’utilizzo dei bastoncini nella camminata, specie in discesa, per ridurre il numero delle fratture. Lo zaino non dovrebbe superare il 16% del peso del bambino.

L’arrampicata è stimolante per il bambino. L’uso di calzature adatte protegge le caviglie da sollecitazioni in varo valgo stress. Devono essere impermeabili, traspiranti, dotate di suole antiscivolo, leggere e di facile allacciatura, adattabili alle caratteristiche anatomiche del bambino. L’uso estivo delle seggiovie nelle stazioni sciistiche consente agli appassionati di mountain bike (MTB), ricreativi e competitivi già a partire dai 6 anni, di avere accesso a piste più ripide, più lunghe e più impegnative. Negli USA la MTB ha attirato quasi due milioni di giovani di età compresa tra sei e 17 anni nel 2016, un aumento di 200,000 partecipanti dal 2007. La maggior parte dei traumi avviene durante la discesa. Qualsiasi attività deve essere svolta in sicurezza, acquisibile attraverso attrezzatura, esperienza e informazione. Compito dei medici è informare i genitori sui rischi delle attività e la relativa prevenzione.

Simona Bursi, pediatra urgentista dell’Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari di Trento/Ospedale di Cavalese e Pronto Soccorso Pediatrico di Montagna dell’Ospedale S. Chiara di Trento, membro del GS di Pediatri di Montagna della SIP, ha presentato una relazione dal titolo “In montagna con i bambini: alcune regola per dare il buon esempio cominciando dai giusti consigli dietetici”. Quando si va in montagna con i bambini ci si deve preoccupare della scelta dell’escursione, dell’alimentazione e dell’idratazione, dello stato salute di base, dell’abbigliamento, della protezione solare. Il Gruppo di Lavoro di pediatri di montagna ha da tempo stilato un decalogo a punti consultabile in Internet nel sito del CAI e della SIP. Bursi ha sottolineato l’importanza dell’alimentazione del bambino che frequenta la montagna e che va calibrata in base all’attività fisica svolta e alle condizioni climatiche tipiche dell’alta quota. Vi è una maggiore sensibilità dei bambini verso il clima e per alcuni alimenti. È opportuno approfittare di ciò che offre la montagna, sperimentando e diversificando gli alimenti. Il fabbisogno calorico giornaliero del bambino (esempio dai 7 ai 12 anni 2000-2200 Kcal) che può aumentare di molto in caso di esercizio fisico, soprattutto in ambiente ostile (freddo e alta quota). I carboidrati dovrebbero costituire la principale fonte di energia (55-65%), semplici o complessi. Le proteine e i grassi sono importanti per la formazione e il ricambio cellulare e per immagazzinare energia di riserva. Importanti anche frutta e verdura contenenti sali minerali e vitamine. La colazione è uno dei pasti più importanti della giornata e deve essere digeribile, bilanciata, deve consentire il migliore rifornimento energetico possibile e prevenire le perdite di acqua e di minerali. Il pranzo (al sacco o in rifugio), di solito consumato a metà sforzo fisico, deve avere caratteristiche simili a quelle della colazione. Deve essere bilanciato, di facile digeribilità, rifornendo di energia, reintegrando acqua e sali minerali. Una corretta idratazione è importante per mantenere l’omeostasi. I bambini tendono a muoversi molto e spesso dimenticano di bere. La montagna aumenta la perdita di acqua (sudore e traspirazione). Si avverte meno la sensazione di sete. La pressione atmosferica si riduce, aumenta la ventosità e la temperatura si abbassa. L’acqua meglio se è naturale e se non è troppo fredda. Vanno bene anche gli infusi caldi, poco zuccherati; se si beve il tè, possibilmente deteinato. Si può integrare con frutta fresca. Evitare bibite o bevande zuccherate, gassate e drink energetici. Da uno a quattro anni si dovrebbe bere circa un litro di liquidi al giorno. Dai quattro agli otto anni circa 1,5 litri, aumentabili in base alla temperatura e all’attività fisica. Gli adolescenti possono superare i 2-2,5 litri se effettuano intensa attività fisica. Il latte fresco va bevuto previa bollitura e non subito dopo la mungitura. Vanno evitati i latticini derivati da latte non pastorizzato. Non va bevuta acqua di ruscelli o torrenti (possibile contaminazione). Non si devono raccogliere frutti caduti a terra, facendo attenzione a bacche e funghi. È consigliato abbinare attività fisica e corretta alimentazione in montagna: può avere effetti particolarmente positivi per la salute, a maggior ragione nell’età evolutiva. Un apporto nutrizionale corretto, associato all’attività outdoor e all’esposizione al sole, stimola l’assimilazione e la produzione della vitamina D, fondamentale per il metabolismo osseo e per l’assorbimento di fosforo e calcio. Inoltre, l’associazione di alimentazione sana, benessere cardiopolmonare ed efficienza del metabolismo previene obesità e anemia. In conclusione la dieta dei bambini in montagna dovrebbe essere costituita da alimenti energetici, digeribili, appetitosi e facilmente consumabili durante le brevi soste. Deve essere adattata all’età, allo sforzo fisico, alle condizioni climatiche del luogo e deve tener conto del fabbisogno calorico giornaliero. Deve essere associata a un’adeguata e sufficiente idratazione. Non può prescindere da alcune precauzioni riguardanti prevalentemente latte fresco e latticini.

È seguita la presentazione di Mariapina Gallo, medico tossicologo del Centro Antiveleni dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, dal titolo “Bambini e veleni: rischi tossicologici in montagna”. La relatrice ha parlato dei pericoli per i bambini che frequentano la montagna. Ha fatto presente che esiste un numero verde che può essere molto utile in qualsiasi caso di avvelenamento (800 883300). Ha parlato del trattamento del morso di vipera, di ragni, di scorpioni, di imenotteri. Anche alcune piante o alcuni funghi che vivono in montagna possono essere insidiosi. In caso di avvelenamento da piante vanno valutati il grado di tossicità e le possibili manifestazioni cliniche correlate. A volte è difficile effettuare una previsione a causa della variabilità del contenuto dei principi attivi che sono diversi a seconda delle parti della pianta, del suo ciclo vitale e della stagione. Si deve tener conto del livello di assorbimento attraverso l’apparato gastroenterico e la biodisponibilità. Da precisare che l’attività farmaco-tossicologica si modifica in seguito al trattamento fisico subito dal materiale dopo la raccolta (per esempio dopo la cottura, l’essicazione o la macerazione). La relatrice ha descritto la sindrome anticolinergica causata da alcune piante velenose. In caso di ingestione non si deve provocare il vomito, non si deve somministrare latte, non si deve attendere la comparsa dei sintomi. Ci si deve recare presso un Pronto Soccorso e/o contattare un Centro Antiveleni, portando con sé la pianta o fotografandola affinché sia possibile per gli esperti capire a che specie appartiene. Gallo ha parlato delle intossicazioni da funghi: sindromi a breve latenza (<sei ore) e sindromi a lunga latenza (>sei ore). In caso di un’intossicazione è necessario effettuare un’anamnesi accurata, identificare il rischio tossicologico, attivare misure di emergenza, di supporto e di decontaminazione. Si possono effettuare un lavaggio cutaneo e/o oculare. Va praticata una terapia sintomatica oppure specifica, ricorrendo alla somministrazione di antidoti.

Simone Trussardi, presidente della Sezione del CAI di Clusone (Bg), ha presentato il gioco “pelli di foca”, che insegna in modo ludico la sicurezza in montagna. Particolarmente adatto ai bambini perché unisce divertimento e insegnamento, si tratta del primo gioco in scatola che riguarda lo sci-alpinismo.

Silvia Radaelli, pediatra diabetologa ed endocrinologa dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, e Franco Fontana, pediatra, membro della Commissione Centrale Medica del CAI, di Tortona, hanno parlato de “Il bambino con diabete 1”. Si tratta di una patologia di tipo cronico a eziologia autoimmune, con distruzione delle cellule beta pancreatiche ad opera di autoanticorpi. Più comune in età pediatrica: 1 su 1000 nell’Italia peninsulare, 3-4 su 1000 in Sardegna. Vi è un alto rischio di complicanze metaboliche e vascolari. Il monitoraggio glicemico tramite sensori presenta alcuni punti di forza: situazione costantemente sotto controllo, segnali di allarme in caso di peggioramento della condizione, miglioramento dell’Hba1c, riduzione ipoglicemie, meno disagio per i pazienti. Le criticità: Lag time (5-10 minuti), affidabilità in corso di sport, affidabilità in corso di rapide variazioni glicemiche, cerotto (tenuta, irritazioni), altitudine massima 3000-4000 metri. La terapia insulinica può essere multi-iniettiva (MDI), a lunga durata d’azione (basale), 40-50% del fabbisogno insulinico, garantisce euglicemia in fase di digiuno. L’insulina ad azione rapida, somministrata prima dei pasti, limita il picco glicemico post-prandiale. Prevede l’impiego di microinfusore (CSII) che eroga insulina rapida sia di continuo sia al momento del pasto. In generale la corretta gestione dell’insulina, durante l’attività fisica e sportiva deve essere stabilita dal diabetologo in base al singolo caso.

 Non si deve iniettare insulina nelle sedi coinvolte nell’esercizio fisico. Va effettuato un monitoraggio glicemico stretto. Il target glicemico deve essere 180-270 mg/dl. Si deve interrompere l’esercizio fisico se la glicemia è uguale o inferiore a 80/70 mg/dl o se compaiono sintomi di ipoglicemia. Al di sopra dei 3500 metri vi sono variazioni ormonali (aumento delle catecolamine=insulino-resistenza). Bisogna controllare la disidratazione. Si verifica una sottostima della glicemia da parte di sensori e glucometri (<5°C oltre i 3500 metri). Oltre i 4000 metri compare anoressia. Possibile somministrazione di insulina in eccesso per presenza di bolle nei cateteri di infusione dei microinfusori. In conclusione il diabete di tipo 1 è una patologia cronica. Il trattamento richiede terapia insulinica intensiva e stretto monitoraggio glicemico. La tecnologia sta migliorando sempre di più la cura e la qualità della vita di questi pazienti. L’attività fisica, ancor di più in alta quota, può comportare variazioni glicemiche significative e, talvolta, imprevedibili. Con la giusta preparazione e pianificazione non c’è cima che non possa essere scalata.

L’OMS ha promosso l’incremento dell’attività fisica quale forma di prevenzione e di terapia per alcune patologie del benessere tra le quali appunto il diabete. Del resto, l’esercizio fisico è parte integrante del piano di trattamento del diabete mellito, grazie alla sinergia d’azione tra lavoro muscolare e insulina. La frequentazione della montagna con il diabete richiede un notevole bagaglio di conoscenze filtrate attraverso la sperimentazione quotidiana. Occorrono autocontrollo, valutazione degli effetti dell’attività muscolare sulla glicemia, autogestione dell’insulina, saper riconoscere i segni e i sintomi dell’ipo/iperglicemia e dell’ipoglicemia tardiva. Nella persona con diabete insulino-trattata il livello di insulina nel sangue non è controllato da meccanismi fisiologici, ma dipende unicamente dall’effetto dell’insulina somministrata.  L’andamento glicemico dipende dalla capacità della persona affetta da diabete di tipo 1 di modificare in maniera adeguata la terapia insulinica e nutrizionale. Un’esperienza educativa/terapeutica della durata di tre-quattro giorni in montagna è improntata essenzialmente sull’attività fisica di tipo aerobico. Verificando i benefici dell’esercizio fisico sull’equilibrio glicemico, si acquisisce la capacità di prevenire e trattare le ipoglicemie, attraverso la modulazione della terapia insulinica e delle scelte alimentari in rapporto alla intensità e alla durata dell’impegno fisico. Le uscite, effettuate con diverse professionalità (medici, psicologi, educatori, infermieri) con la collaborazione di esperti della montagna (accompagnatori CAI, guide alpine, guide escursionistiche) sono solitamente precedute da un incontro preparatorio e seguite da un riepilogo di gruppo. Nella preparazione di un trekking servono incontri e uscite propedeutiche, condivisi con accompagnatori CAI e medici. Vanno fornite informazioni ai partecipanti e vanno scelti itinerario, dislivelli e difficoltà. L’alimentazione va curata. L’esperienza del Diab3king rappresenta un eccellente sistema per mettere alla prova la capacità di autogestione della malattia e di confronto e condivisione al di fuori delle mura ospedaliere. Viene, inoltre, favorita la socializzazione e migliorano l’autostima e l’accettazione della malattia. Vi sono condivisione di esperienze e di opinioni che fanno aumentare la consapevolezza, attraverso la conoscenza delle variabili ambientali.

Ultima la presentazione di Donatella Rizzi, educatrice di Parma, che ha parlato dei “Disturbi dello spettro autistico”. Si tratta di un insieme eterogeneo di anomalie del neurosviluppo caratterizzate da deficit persistente nella comunicazione sociale e nell’interazione sociale in molteplici contesti e pattern di comportamenti, interessi o attività ristretti, ripetitivi. Gli studi epidemiologici internazionali hanno riportato un incremento generalizzato della prevalenza di ASD (Autism Spectrum Disorders).

La maggior formazione dei medici, le modifiche dei criteri diagnostici e l’aumentata conoscenza del disturbo da parte della popolazione generale connessa anche al contesto socio-economico, sono fattori da tenere in considerazione nell’interpretazione di questo incremento. Attualmente la prevalenza del disturbo è stimata essere 1 su 54 tra i bambini di 8 anni negli USA, di 1 su 160 in Danimarca e Svezia, di 1 su 86 in Gran Bretagna. In Italia si stima che circa un bambino su 77 (età 7-9 anni) presenti un disturbo dello spettro autistico con una prevalenza maggiore nei maschi. Questi ultimi sono 4,4 volte in più rispetto alle femmine. In età adulta pochi studi sono stati effettuati e segnalano una prevalenza di 1 su 100 in Inghilterra. La montagnaterapia è un originale approccio metodologico a carattere terapeutico-riabilitativo e/o socio-educativo, finalizzato alla prevenzione secondaria, alla cura e alla riabilitazione degli individui portatori di differenti problematiche, patologie o disabilità, prevalentemente riconducibili alla salute mentale o a una dipendenza. Le attività si svolgono attraverso il lavoro sulle dinamiche di gruppo, nell’ambiente culturale, naturale e artificiale della montagna. Il progetto “Le aquile coraggiose” è un’iniziativa di montagnaterapia sul territorio nazionale. I bambini sperimentano l’esperienza di camminare in ambiente. I ragazzi, all’inizio 10 (dai 9 ai 19 anni), sono quest’anno 16, con diagnosi medio/gravi e gravi. Le uscite sono circa 7/8 all’anno, prevalentemente in Appennino, ma non solo. Nelle uscite si è sempre in rapporto 1:1, a volte anche 2:1, tra educatori, infermieri e volontari. L’invio dei ragazzi viene fatto da neuropsichiatri o psichiatri: è l’unico gruppo a scavalco tra due servizi CSM e NPIA. Uno dei criteri di partecipazione è che i ragazzi possano venire in autonomia. Il progetto è stato inserito nel PEI scolastico dei ragazzi.

Praticare l’arrampicata può accrescere l’autostima dei partecipanti. Molti ragazzi vivono per la prima volta la montagna, ambiente fonte di esperienze psicomotorie e relazionali. Ogni anno viene portata avanti la “Staffetta Blu”, un progetto ideato per i ragazzi affetti da autismo.

 

27.06.24