- LA VALANGA DEI LAGHI GEMELLI
Di Giancelso Agazzi
Si chiamava Battista Oliva e aveva meno di trent’anni. Amava la montagna con i suoi canti e tutta la fatica che richiedeva arrampicarsi attraverso i sentieri impervi e nevosi.
Il 7 dicembre del 1909 - era un gelido Santo Ambrogio - si incamminò con altri escursionisti verso il Passo dei Laghi Gemelli, a 2023 metri, in Alta Val Brembana. L’intento era quello di incontrare in cima al passo due amici trevigliesi, i fratelli Antonio e Guido Ferrari, che provenivano dalla Val Canale. Il gruppo di Oliva era formato da otto ragazzi di Milano e di Treviglio. Ne facevano parte, oltre a lui, Arnaldo Gozzini, Erminio Bacchetta, Giuseppe Carioni, Carlo Galli, Leopoldo Torri, Mario Busné, Giuseppe Gallesi. Ad accompagnarli Pino Berera, custode del rifugio Laghi Gemelli e due portatori. I giovani alpinisti erano saliti al rifugio domenica 4 dicembre, ma per avviarsi verso il Passo avevano dovuto attendere due giorni, per via delle condizioni atmosferiche avverse.
VERSO LA META MAI RAGGIUNTA
La mattina della partenza si incamminarono in fila indiana: ci sarebbero volute circa quattro ore per arrivare al luogo dell’appuntamento con i Ferrari. In sei procedevano a piedi, mentre Galli e Torri indossavano gli sci (gli sky, per dirla come allora). Strada facendo ci fu una defezione: Mario Busné dovette tornare indietro perché le dita dei piedi gli si erano congelate.
La tragedia accadde intorno a mezzogiorno, quando ormai il gruppo si trovava a una cinquantina di metri dal Passo: dalla montagna si staccò una valanga, un mostro alto trenta metri, con un volume di cinquecento metri cubi più o meno. Furono travolti tutti, ma quattro ce la fecero a liberarsi, non solo vivi, ma anche illesi. Altri due riportarono fratture varie, ma la pelle, quella la salvarono, sia pure con non poca fatica. Di fatto lottarono con tutte le forze di cui disponevano contro la trappola mortale che li aveva imprigionati, ma evidentemente la loro non era scoccata. Erminio Bacchetta, dopo aver vinto la sua strenua lotta contro la neve che lo teneva intrappolato, riuscì addirittura a partecipare ai soccorsi.
Se è vero che c’è un destino è certo che il loro era benevolo, compassionevole.
Oliva, invece, non ebbe la stessa fortuna: la massa di neve assassina, dopo di averlo travolto, lo uccise.
Mentre gli escursionisti si difendevano da quell’accadimento in cui la natura aveva mostrato la sua faccia violenta, i soccorsi non erano ancora stati allertati. Ci vollero, infatti, ore e ore prima che a valle si venisse a sapere della sciagura e si organizzasse una spedizione per aiutare i feriti.
L’ALLARME
La cronaca dell’epoca riporta che solo verso le 19 del giorno successivo (era l’8 dicembre 1909) arrivò presso la sede del CAI Bergamo, allora situata di fronte alla Prefettura, un fattorino con un telegramma che consegnò a Umberto Tavecchi. Ci stava scritto: Una valanga ha travolto degli skyatori-alpinisti presso il Passo dei Laghi Gemelli (2023 m.). Una forte tormenta ha reso difficili i soccorsi. Urgono rinforzi”. In calce la firma: Guida Monaci di Branzi.
Il telegramma arrivò a Bergamo grazie ai fratelli Ferrari che l’8 dicembre scesero a Branzi per dare l’allarme, prima di proseguire per Treviglio, dove avrebbero avvisato i famigliari dei giovani coinvolti nell’incidente.
Tavecchi informò subito l’ingegner Albani, allora Presidente del CAI Bergamo nonché della ferrovia della Valle Brembana, il quale si occupò della spedizione. Un treno speciale partì alle tre del mattino del 9 dicembre per portare i soccorritori a destinazione: sarebbe arrivato fino a San Giovanni Bianco. Da qui sarebbe stato necessario proseguire fino a Branzi con una corriera a tre cavalli.
I SOCCORSI
Da Bergamo partirono l’ingegner Albani, il dottor Ugo Frizzoni, quattro militi della Croce Rossa e il giornalista Varinelli. A Branzi si aggiunsero al gruppo un altro medico, il dottor Mussati, la guida Monaci e quattro valligiani con le barelle. Successivamente le file dei soccorritori si ingrossarono ulteriormente grazie a una squadra di volontari giunti da Carona. Ne facevano parte il sindaco Ferdinando Riceputi, suo fratello Gregorio, il maestro Giovanni Vanini e tre guardie di finanza. A questi si unì poi un plotone di dieci alpini della guarnigione di Bergamo, guidati dal tenente Vecchierelli, marchigiano.
La colonna dei soccorritori, condotta da Albani, partì quello stesso 8 dicembre intorno alle 10 del mattino. Per raggiungere la meta seguì la “via invernale”, sicura ma non certo agevole, coperta com’era da circa 70 centimetri di neve frasca. Intorno alle 14, circa 12 ore dopo la partenza da Bergamo, raggiunsero il rifugio dove trovarono i feriti che, arrancando nella neve e nonostante il dolore e l’angoscia che fiaccavano gambe e spirito, erano riusciti a ritornarvi. I due medici prestarono le prime cure a Galli e Torri, che avevano riportato fratture, mentre altri soccorritori proseguirono verso il luogo della tragedia alla ricerca del disperso.
Galli e Torri furono poi trasportati a valle, con le barelle. I portantini impiegarono 10 ore a coprire il tragitto, senza mai scoraggiarsi nonostante i disagi. Una delle due barelle cedette a metà del cammino, complicando non poco la già complicata situazione. Anche i soccorritori partiti alla ricerca di Oliva incontrarono grosse difficoltà, una su tutte il congelamento dei piedi che rese necessario il ricovero in ospedale per Romeo Emilio e altri quattro alpini.
Il corpo di Battista Oliva fu ritrovato il 26 dicembre da un volontario di Branzi: per ben 19 giorni aveva avuto per tomba la neve. La salma fu portata a spalla fino a Branzi da dove un’automobile la trasportò fino a Treviglio. Della vicenda si occupò ampiamente tutta la stampa nazionale e non solo l’Eco di Bergamo. La valanga, la rocambolesca azione dei soccorritori, i feriti e la morte prematura di un alpinista erano materiale da prima pagina allora come ora.
SENZA TEMPO E SENZA DOLORE
Travolto dalla valanga uno dei sopravvissuti, Arnaldo Gozzini, perse i sensi. <<Ricordo quanto mi é accaduto e le sensazioni provate solo in modo vago>> disse qualche tempo dopo in un’intervista. <<Sotto la neve non avevo la cognizione del tempo, non capivo quanto a lungo si protraeva la mia sepoltura. Ricordo solo che il mio alito aveva scavato nella neve, in corrispondenza della mia faccia, una specie di buca in cui l’aria circolava mantenendomi in vita. Tenevo una mano sollevata verso l’ alto e anche questo contribuì a salvarmi. Mi lamentavo. Così mi è stato riportato poi dai miei compagni, io questo particolare, come tanti altri, non lo rammento. Senza di loro non avrei avuto la possibilità di riferire molto>>. Fu ritrovato dopo più di un’ora con gli occhi chiusi, la bocca spalancata, la voce flebile arrochita dal freddo e dal torpore. <<Sotto la neve si muore senza dolore>> disse anche. <<Il gelo paralizza, ottunde la facoltà di sentire>>. Anche per Oliva fu senz’altro così: solo un freddo immenso e poi il nulla.
IN SUA MEMORIA
Il 16 agosto 1910, otto mesi dopo la caduta della valanga, nel luogo della sciagura fu posta una lapide in ricordo dello skyatore-alpinista che la montagna aveva fermato per sempre. Durante la cerimonia, fu il notaio Zanconti a rievocarne con viva commozione la figura. Per iniziativa della società Alpe-Atalanta e degli escursionisti bergamaschi, al Passo dei Laghi Gemelli venne posato un crocefisso in ferro con la foto di Oliva, così da suggerire a chiunque passi di là di onorarlo con un fugace pensiero o con un segno di croce.