Il ferito del Passo del Termine

 

La piccola colonna scendeva lenta dal passo, trasportando un soldato ferito. Era la metà di ottobre del 1918.

 Il terreno era coperto di neve. Dal Passo del Termine, così chiamato perché allora segnava il confine tra l’Impero Austro-Ungarico e il Regno d’Italia, passava la prima linea italiana ai tempi della Guerra Bianca.

Il valico era tra i più tranquilli del fronte, ma qualcosa, il giorno prima, era accaduto inaspettatamente.

Un’azione austro-ungarica aveva, infatti, provocato tra i soldati italiani due morti e cinque feriti. Una ventina di Imperiali era salita di notte dalla val di Leno, sorprendendo la guarnigione italiana. L’intenzione era di conquistare le postazioni del Passo e aggirare il fronte italiano. I soldati Austro-Ungarici avevano affrontato la lunga salita, partendo dalla Val Daone poco dopo le 19. Erano tutti giovani e bene allenati. Dovettero affrontare non poche difficoltà, specie nella parte alta dell’itinerario, dove la neve era abbondante e il rischio di valanghe elevato. Conoscevano la montagna e facevano parte di una compagnia di alta montagna, comandata da un capitano. Erano tutti montanari. Salirono in silenzio, ordinati, in fila indiana, battendo a turno la neve alta. Una volta superata la cascata gelata, erano transitati lungo il torrente Rondon. All’inizio immersi in una folta abetaia, superarono, poi, alcune balze rocciose. Avevano oltrepassato il pascolo di malga Leno, attraversando tratti boscati e brevi radure. Sbucati da un lariceto, erano giunti nell’ampia conca della malga Gelo, posta alle pendici del monte omonimo e di cima Blumone. Una volta risalita una ripida dorsale, si erano portati in prossimità dell’ampio valico, nascondendosi in una valletta sottostante il Passo, per organizzare l’attacco. Avevano ripreso fiato, mangiato qualcosa, preparato le armi e le bombe a mano, e montato le baionette sui fucili, prima di passare all’azione. La notte era chiara e fredda. Solo in basso nel fondo valle si alzavano qua e là alcune nebbie, prime avvisaglie dell’arrivo del brutto tempo. All’orizzonte di tanto in tanto si vedeva la vetta del Carè Alto illuminata dal riflettore italiano posto sulla cima del Re di Castello.

 Le vedette italiane che, quella notte, montavano di guardia, non si accorsero di nulla. Erano convinte che di lì non sarebbe salito nessuno. L’azione dei soldati austro-ungarici venne respinta, dopo un violento combattimento durato una ventina di minuti. Alcuni degli Imperiali, avendo riportato delle ferite, vennero soccorsi e trasportati a valle dai compagni, dopo l’inaspettato ripiegamento. Tra di loro vi fu anche un morto. Scesero a valle lentamente, avanzando sotto una fitta nevicata, delusi e tristi per l’azione andata male e per la morte di uno compagno. Arrivarono in val Daone alle prime luci del giorno.

Uno degli Alpini era stato colpito a un braccio dalla scheggia di una granata. L’artiglieria nemica aveva bombardato le postazioni italiane in ritardo, subito dopo l’azione, usando granate e shrapnel. L’Alpino ferito non fece in tempo a porsi al riparo dalle bombe e così venne colpito. Non venne evacuato subito a causa del brutto tempo che era sopraggiunto. Fu posto al riparo in una caverna, dove passò la notte, assistito dai soldati della Sanità, che gli somministrarono morfina e gli medicarono la ferita. Gli altri quattro feriti, i più gravi, erano stati portati via subito.

La colonna che trasportava il ferito, un giovane lombardo, era costituita da un gruppo di sei Alpini, quattro barellieri della Sanità e due fucilieri. Il tragitto  fu difficoltoso a causa del terreno innevato e del ghiaccio che a tratti copriva lo stretto sentiero. Dal passo si doveva scendere per circa un’ora prima di raggiungere il villaggio militare dove si trovava l’ospedaletto. Quest’ultimo era situato più in basso, su un promontorio, al riparo dalle valanghe, e vicino alle altre casermette, in una posizione incantevole. I militari dovevano effettuare un lungo traverso sotto le pendici del monte Gelo, molto ghiacciato, da cui, talvolta, cadevano valanghe. Ogni tanto dovevano sostare per riposarsi e darsi il cambio. Arrivarono alla meta prima di sera. Durante la discesa il giovane militare, nonostante il forte dolore dovuto alla ferita, riusciva a chiacchierare con i commilitoni che lo trasportavano a spalla, cercando di distrarlo un poco. Era ben coperto dal momento che la temperatura esterna era al di sotto dei dieci gradi centigradi. Appena giunti all’ospedaletto, l’Alpino venne accolto e visitato da un giovane tenente medico. Era di Sondrio e da poco era stato assegnato a quell’ospedaletto. Gli altri feriti con i due morti erano già stati trasferiti a Gaver, verso il fondo della valle del Caffaro. Presso il piccolo ospedale erano ricoverati una decina di Alpini. Alcuni erano affetti da congelamenti agli arti, altri da bronchiti o da gastroenteriti. I meno gravi giocavano a carte seduti a un tavolino, vicino a una stufa a legna, per far passare il tempo. Uno di essi era stato travolto da una valanga mentre saliva al monte Listino. Il medico visitò il ferito, ne valutò le condizioni generali. Poi, con un piccolo intervento chirurgico, estrasse dal braccio la scheggia. Il giorno dopo si alzò la febbre. La ferita incominciò a suppurare. L’Alpino dovette rimanere presso l’ospedaletto per più di dieci giorni. Poi, finalmente la febbre cessò e venne mandato a casa per la convalescenza, in cuor suo si augurò fosse molto lunga. Ma non ce n’era bisogno di tutta questa preghiera, perché il 4 novembre venne firmato l’armistizio.