LA SALUTE IN VETTA NEL CONGRESSO DI GIUGNO

Nei giorni 7 e 8 giugno 2024 si è svolto a Pinzolo, in provincia di Trento, il III° Convegno Nazionale di Medicina di Montagna, durante il quale si è affrontato il tema del rapporto tra benessere e ambiente alpino

 

Dopo il saluto di Elena Bravi, dell’Azienda Provinciale dei Servizi Sanitari di Trento e di Antonio Ferro,direttore generale dell’ATS di Trento e di Antonio Prestini, medico e guida alpina di Tione (Tn), ha avuto inizio il convegno dal titolo “La montagna: un patrimonio per la salute e il benessere di tutti”. Elena Bravi ha sottolineato l’importanza della montagna nel percorso riabilitativo nella malattia psichica. Il silenzio dell’ambiente alpino favorisce l’introspezione e la condivisione nelle fragilità psichiche. In montagna scompaiono le gerarchie, si riducono i pensieri negativi e aumenta il senso di responsabilità.

La prima sessione del convegno è stata a cura della Società Italiana di Medicina di Montagna (SIMeM), moderata da Lorenza Pratali e da Giancelso Agazzi.

Primo relatore Sandro Cinquetti, direttore del Dipartimento di Prevenzione dell’azienda UlSS1 Dolomiti di Belluno, componente della Commissione Centrale Medica del CAI, con una presentazione dal titolo “La montagna luogo di salute e benessere per turisti e residenti”. In realtà non sempre la montagna è un luogo di salute e di benessere. Il residente non sempre vive la montagna come il turista, che viene da fuori. Spesso le comunità di montagna percepiscono il loro luogo di vita come rischioso o addirittura ostile: distanza dai centri principali, viabilità difficile, meteo impegnativo, difficoltà occupazionali, basso reddito, chiusura di alcuni presidi ospedalieri. Da ciò deriva lo spopolamento e l’invecchiamento delle popolazioni delle aree interne entrambi fenomeni che fanno venir meno quel welfare di comunità che sostiene la salute dove esso opera. Nella ULSS 1 Dolomiti il tasso di suicidi ogni 100mila abitanti tra il 2010 e il 2020 è stato di 12,82, rispetto alla Regione Veneto 8,44. Anche la mortalità per malattie del fegato risulta più elevata (etanolo).

 

Comunità di montagna: più resilienza, migliore stile di vita

 

La montagna talvolta sorprende in positivo: le comunità di montagna per meccanismi che sarebbe interessante indagare rispondono meglio alle crisi, alle proposte preventive e presentano stili di vita migliori. Si ipotizzano elementi “protettivi”: prevenzione attiva, medicina di famiglia performante, medicina di iniziativa (l’istituzione va verso il cittadino), empowerment del cittadino e delle comunità (volontariato forte e generoso), contesto territoriale favorevole (outdoor facilitation). La salute, secondo i Centers for Diseases Control and Prevention dipende per il 10% dall’accesso alle cure, per il 20% dalla genetica, per il 20% dall’ambiente e per il 50% dal comportamento nei confronti della salute (comportamenti salutari). Ben il 70% degli adulti bellunesi risulta fisicamente attivo.

Buono risulta il consumo abituale di frutta e verdura. La percentuale di fumatori (19%) tende ad essere più bassa rispetto al resto del Veneto (23%) e all’Italia (24%). Tra i vantaggi dell’ambiente: minore impatto del riscaldamento globale, minore inquinamento, risorse idriche generalmente di buona qualità, attività motoria favorita(outdoor). Si deve fare attenzione nel proporre la montagna come luogo di emozioni estreme. Nel parlare di salute bisogna costruire maggiore evidenza scientifica: termini come montagnaterapia o terapia forestale, disinvoltamente utilizzati dai non addetti ai lavori, per essere da noi utilizzati richiedono cautela e studio…

Nella provincia di Belluno l’incidenza del melanoma è molto alta, specialmente tra le donne. La mortalità per infarto acuto del miocardio a 30 giorni dal ricovero è più bassa rispetto al resto del Veneto, così come è risultata inferiore la mortalità per Covid-19.  Nel bellunese si registrano 388 decessi in meno nei confronti della media veneta per tutte le cause di morte. Il bellunese presenta una migliore risposta agli screening. Fermo resta che il denaro salva la salute: ci si può curare meglio.

 

La cardioprotezione dovuta all’ipossia ipobarica

 

Lorenza Pratali, cardiologa dell’Istituto di Fisiologia Clinica del Cnr di Pisa e past president della SIMeM, ha parlato di “Abitanti della montagna e rischio di malattie cardiovascolari”. Vari sono stati nei secoli gli adattamenti delle popolazioni nelle regioni montuose del mondo. Gli Sherpa si sono adattati geneticamente all’alta quota, mentre le popolazioni andine soffrono per il male cronico di montagna (morbo di Monge), vivendo in altitudine da epoche più recenti (commistione tra popolazione locale e popolazione caucasica). La malattia cronica di alta quota rappresenta uno dei problemi più importanti di salute pubblica in particolare nella popolazione andina, caratterizzata da intolleranza all’esercizio, policitemia e ipertensione polmonare (prevalenza 5-18% oltre i 3200 metri di quota). In uno studio effettuato a Cerro de Pasco sulle Ande a 4340 metri dal team del professor Gianfranco Parati di Milano su un gruppo di soggetti con età media di 38 anni (143 donne e 146 uomini) si è notata una prevalenza di ipertensione mascherata del 15%, un’ipertensione riscontrata in ambulatorio del 7%, nel monitoraggio nelle 24 ore del 20%, e un’ipertensione da camice bianco nel 2%.

L’inquinamento è un fenomeno provocato da tutto ciò che viene rilasciato nell’ambiente dovuto alle attività umane.  Può provenire dall’atmosfera, dai metalli pesanti, dal cambiamento climatico o da composti chimici vari. Costituisce un fattore di rischio cardiovascolare in genere sottovalutato; è assente nelle linee guida sulla prevenzione cardiovascolare. Esiste una correlazione tra i marker di danno vascolare e concentrazione di black carbon. Le popolazioni montane sembrano avere un migliore stile di vita. Vi è una cardioprotezione determinata dall’ipossia ipobarica. Nelle abitazioni di alcune popolazioni himalayane (Nepal) l’assenza di un camino determina, a causa del diffondersi del fumo, una disfunzione endoteliale sia a livello delle arterie, sia dei polmoni. Ciò è stato evidenziato da uno studio, effettuato su 426 soggetti, viventi in cinque villaggi localizzati a differenti quote nella valle del Khumbu in Nepal. Strutturato in quattro fasi, si è occupato del monitoraggio degli inquinanti e delle abitazioni, della salute cardiovascolare degli Sherpa, insieme al monitoraggio degli inquinanti indoor, della costruzione di sistemi di fuoriuscita dei fumi e del follow up dopo cinque anni. L’attività fisica lavorativa intensa (97% della popolazione) ha un’associazione positiva e indipendente, con aumento della rigidità arteriosa nella popolazione Sherpa studiata. La PWV, dall’inglese Pulse Wave Velocity, rappresenta la velocità con cui il flusso generato dal cuore si propaga all’interno dell’albero arterioso, non è influenzata dai fattori di rischio tradizionali (eccetto l’età) o dall’acclimatamento alla quota. L’attività occupazionale intensa può essere considerata un fattore di rischio cardiovascolare.

L’attività fisica non esageratamente impegnativa, praticata con regolarità nel tempo, riduce i fattori di rischio cardiovascolare, in particolare assicura una riduzione dell’infarto del miocardio pari al 14%.

I fattori di rischio cardiovascolare hanno una prevalenza simile in quota. È importante studiare le popolazioni con metodologie standardizzate. Si deve fare attenzione ai fattori di rischio trascurati come inquinamento indoor e attività fisica occupazionale intensa. La mortalità per malattie cardiovascolari in quota sembra essere ridotta.

 

Malattie croniche e montagna

 

È seguita la presentazione di Andrea Ermolao, direttore della Scuola di Specializzazione in Medicina dello Sport dell’Università di Padova, dal titolo “Attività in montagna per i soggetti con patologie croniche”. I rischi aumentano salendo in alta quota, anche perché si verifica un incremento dell’attività simpatica. Fino a 2500 metri la desaturazione è minima. La prestazione nel corso dell’attività fisica diventa meno efficiente. In caso di trasporto di un carico pari al 10% del peso corporeo, la VO2 (massimo consumo di ossigeno) cresce in modo lineare di circa il 20%. Si deve usare prudenza quando si svolgono attività a rischio nelle prime 24-36 ore di esposizione alla quota. Vanno programmate interruzioni più lunghe e frequenti per facilitare il recupero. Lo zaino dovrebbe avere un peso inferiore al 10-15% del peso corporeo. Ci si deve proteggere gli occhi usando gli occhiali da sole. I bastoncini da trekking possono essere utili poiché riducono il carico muscolare e aumentano l’equilibrio e la stabilità.

 Le radiazioni solari aumentano la produzione di vitamina D e NO, entrambi svolgono un importante ruolo immunoregolatore. Il benessere a livello psicologico aumenta, lo stress si riduce. Luks e Hackett hanno proposto in relazione alle patologie croniche e ai rischi potenziali ad alta quota quattro domande da porre a viaggiatori che si vogliono recare in montagna: 1) Il soggetto è a rischio di severa ipossiemia o può soffrire a causa di un’alterazione degli scambi dell’ossigeno ad alta quota? 2) Può presentare un rischio di un’alterata risposta ventilatoria? 3) Può sviluppare problematiche legate alla risposta vascolare polmonare in risposta all’esposizione all’ipossia? 4) L’ipossia può farlo andare incontro a complicanze correlate a condizioni cliniche preesistenti?

Nel caso le quattro risposte siano tutte negative non serve alcun accertamento aggiuntivo. Nel caso, invece, in cui almeno una risposta sia positiva, occorre una valutazione preliminare in centri specializzati. Nei soggetti affetti da BPCO si verifica una riduzione del 54% della capacità di praticare esercizio fisico. Un’attività sub-massimale graduale di solito è bene tollerata, con un attento monitoraggio della pO2. Gli asmatici possono andare incontro a rischi salendo in alta quota: maggiore ipossiemia e peggioramento della dispnea rispetto alle quote più basse. In più, è possibile che si aggravino, a causa dell’esposizione ad aree urbane con scarsa qualità dell’aria, durante il viaggio verso la destinazione (es. trekking himalayano). L’esercizio fisico può indurre broncospasmo, così come l’aria fredda e secca può aumentare l’iperreattività bronchiale. Per contro la montagna può assicurare agli asmatici alcuni benefici, per esempio l’infiammazione di tipo 2 può ridursi nei pazienti interessati da asma allergico. La minore esposizione agli allergeni si traduce in una significativa diminuzione del rilascio di istamina antigene-indotta da parte dei basofili delle IgE totali specifiche. L’asmatico in scarso controllo dovrebbe evitare l’esposizione ad allergeni. È bene consigliare ai pazienti di proteggere naso e bocca per riscaldare e umidificare l’aria (sciarpa) e di trattare la rinite da reflusso gastro-esofageo. Va considerato l’uso di premedicazione con broncodilatatori prima dell’esercizio o l’uso al bisogno di broncodilatatori short-acting. Portare al seguito farmaci per le emergenze. Per quanto riguarda la valutazione dell’asma, ricorrere alla spirometria. Prevenire le esacerbazioni, verificando l’aderenza terapeutica. Valutare l’esecuzione di screening per EIB (Exercise Induced Brochospasm) con test di broncoprovocazione. In caso di Obstructive Sleep Apnea Syndrome i pazienti dovrebbero continuare la terapia con CPAP, e/o acetazolamide, nonché considerare l’impiego di dispositivi di avanzamento mandibolare. Per quanto riguarda le patologie polmonari interstiziali, non esistono raccomandazioni forti. Va valutata la severità della patologia in condizioni basali ed effettuato uno screening per l’ipertensione polmonare. In caso di ipertensione polmonare, i pazienti in classe III e IV dovrebbero evitare l’esposizione a quote superiori a 2000 metri, ma già intorno ai 1500 metri dovrebbero utilizzare ossigeno supplementare. Salite e discese ripetute possono causare eccessiva fatica muscolare e danno cartilagineo e sindrome da conflitto femoro-rotuleo e valgismo dinamico. Si consigliano pendenze di 5-10%, servendosi dei bastoncini da trekking, che aiutano a ridurre il carico e le forze che si scaricano sugli arti inferiori, migliorando equilibrio e stabilità. Vanno mantenute andature lente in discesa.

Considerata l’elevata prevalenza di insufficienza renale cronica (IRC) nella popolazione generale (10-11%), non è improbabile che questi soggetti possano avere l’occasione di esporsi a quote moderate o anche elevate. Dati limitati suggeriscono che i pazienti affetti da IRC possano tollerare soggiorni di breve durata ad altitudini oltre i 2000 metri, ma considerazioni fisiopatologiche indicano una possibile più rapida progressione verso l’ESRD (malattia renale allo stato terminale) secondaria all’esposizione cronica all’ipossia. Rischi ulteriori potrebbero derivare da sovraccarico di liquidi, vasocostrizione polmonare ipossica, anemia, complicanze cardiovascolari anche secondarie a comorbilità presenti. Mancano studi su AMS (male acuto di montagna) in pazienti affetti da IRC. I pazienti sottoposti a trapianto di fegato possono tollerare senza problemi l’esposizione ad alta quota. Non sono disponibili informazioni sui rischi di una permanenza a lungo termine in quota con una malattia epatica cronica. Non ci sono prove di lesioni o disfunzioni epatiche in individui normali che salgano fino a 5000 metri, mentre si presume un maggior rischio nei pazienti affetti da sindrome epato-polmonare (grave ipossiemia) o con ipertensione porto-polmonare (grave ipossiemia e disfunzione ventricolare destra acuta). Tutti i soggetti con cirrosi epatica hanno bisogno di un’attenta valutazione prima del viaggio per identificare le condizioni che potrebbero predisporre a complicanze in quota e per sviluppare strategie di riduzione del rischio. I pazienti necessitano anche di una consulenza dettagliata sul riconoscimento, la prevenzione e il trattamento del mal di montagna acuto e possono richiedere regimi farmacologici diversi per prevenire o trattare il mal di montagna rispetto a quelli utilizzati nelle persone sane. Al fine di fornire indicazioni personalizzate per l’esposizione e la pratica di attività fisica in ambiente montano serve valutare i dati personali e antropometrici. Sono importanti i dati anamnestici, gli eventuali fattori di rischio, la presenza di patologie e la terapia farmacologica in atto. Per i cardiopatici sono state messe a punto alcune raccomandazioni da parte del gruppo del professor Gianfranco Parati pubblicate nell’European Heart Journal.

 

Diabete e Montagna

 

Maria Vittoria Schiaffino, medico, ricercatrice della divisione di Genetica e Biologia Cellulare dell’Ospedale San Raffaele di Milano, ha parlato di “Montagna e diabete”. L’esercizio fisico ha molteplici effetti positivi, tra i quali la riduzione del glucosio plasmatico e l’aumento della sensibilità all’insulina (durante e dopo l’esercizio), la diminuzione del rischio cardiovascolare e della pressione arteriosa, il mantenimento della massa muscolare, la perdita di grasso corporeo e, quindi, di peso. L’esercizio fisico aerobico a intensità medio-bassa riduce la glicemia durante e dopo. L’esercizio aerobico/anaerobico a intensità medio-alta riduce la glicemia nel dopo. Ogni tipo di esercizio molto faticoso o stressante per troppo caldo o freddo, o preoccupazioni fa aumentare la glicemia. Ogni tipo di esercizio svolto in concomitanza di patologie infettive e non determina un incremento della glicemia.  Le risposte della glicemia all’attività fisica nelle persone con diabete sono molto variabili in base al tipo e alla durata dell’attività, per cui richiedono aggiustamenti personalizzati. Sono necessari controlli frequenti della glicemia per regolare l’assunzione di carboidrati e/o la dose di insulina al fine di mantenere l’equilibrio glicemico durante e dopo l’esercizio.

 A meno che non siano controindicati da uno scarso controllo della glicemia e/o da complicanze, l’American Diabetes Association raccomanda regolare esercizio aerobico, oltre all’allenamento di flessibilità ed equilibrio. La pratica dell’alpinismo non può che avere un effetto benefico per i soggetti diabetici nell’aiutare ad accrescere la buona forma fisica. Sono, comunque richieste una buona conoscenza personale, esperienza e abilità pratica nella gestione dell’alpinismo e del diabete in ambienti remoti. Si deve cercare di mantenere obiettivi terapeutici. Il Time Range (TIR) (70-180 mg/dl) di 70% corrisponde a una HbA1C di approssimativamente 7% (53 mmol/L) e ad una glicemia media di circa 150 mg/dl. Il range ottimale nell’alpinismo è più elevato per evitare le ipoglicemie. La terapia a disposizione prevede l’impiego di insulina servendosi di protocolli codificati. I nuovi strumenti e le terapie a disposizione hanno permesso di migliorare il controllo glicemico e ridurre le ipoglicemie e le complicanze a lungo termine, nonché di rendere più flessibile la gestione della patologia da parte dei pazienti anche durante l’esercizio o, comunque, in condizioni fuori dall’ordinario. In quota (4000-4500 metri) il fabbisogno di insulina aumenta, ma, dopo qualche giorno di acclimatazione, prevalgono sulla glicemia gli effetti di alimentazione ed esercizio. I glucometri sovra o sottostimano la glicemia, tuttavia l’entità dell’errore non è clinicamente rilevante se non in caso di glicemia bassa. Va acquisita una graduale consapevolezza circa l’effetto delle varie attività in montagna su glicemia e fabbisogno insulinico, imparando a gestire tutte le situazioni in autonomia, con programmazione e autocontrollo. Si deve avere sempre con sé strumenti di monitoraggio e insulina in uso, nonché quantità adeguate di carboidrati e acqua; eventualmente glucagone iniettabile (1 mg). Si deve cercare sempre di evitare le ipoglicemie. Oltre all’esercizio tenere conto dell’alimentazione, anche portando con sé alimenti a contenuto noto di carboidrati. È normale, considerato il numero di variabili in gioco, che la glicemia non sia sempre prevedibile, malgrado l’esperienza acquisita e che una persona con diabete la debba, quindi, monitorare con costanza e, in caso, correggere. Esiste la possibilità di monitorare in continuo la glicemia (sensori sul braccio). In montagna si possono formare bolle nei microinfusori che vanno rimosse.

 

La riabilitazione cardiologica in montagna

 

Andrea Ponchia, cardiologo responsabile del Servizio di Riabilitazione Cardiovascolare ULSS6 Euganea di Padova, ha parlato di “Montagna e riabilitazione cardiologica”. La riabilitazione cardiologica si occupa per la maggior parte di pazienti affetti da cardiopatia ischemica, che hanno avuto un infarto del miocardio, sottoposti a bypass aorto-coronarico o a un’angioplastica coronarica, affetti da cardiopatia ischemica stabile, sottoposti a un intervento di chirurgia valvolare, affetti da scompenso cardiaco cronico, trapiantati di cuore o di cuore-polmone, operati per cardiopatie congenite, affetti da arteriopatia cronica obliterante periferica o portatori di pace-maker o di defibrillatori. L’intensità dell’esercizio fisico deve essere pari al 60-75% della capacità aerobica massimale (VO2 Max determinata nel corso della valutazione funzionale cardio-respiratoria iniziale). La frequenza cardiaca deve rimanere tra il 70-85% di quella raggiunta al massimo dell’esercizio. L’obiettivo è di valutare i pazienti con pregresso infarto del miocardio durante l’attività fisica in montagna, cioè in una situazione fisica, psicologica e ambientale di forte impatto, ma anche tale da favorire la socialità, la rigenerazione mentale, l’autostima, la fiducia circa le proprie condizioni di salute. Il protocollo di studio prevede l’effettuazione di un ecocardiogramma bidimensionale, a livello del mare, nel mese precedente lo studio al cicloergometro, massimale, limitato dai sintomi. È previsto un elettrocardiogramma dinamico (Holter) a livello del mare e con escursione a media altitudine. Vanno effettuate la determinazione della saturazione arteriosa dell’ossigeno, la misurazione della pressione arteriosa e della frequenza cardiaca a riposo, a livello del mare, alla partenza e alla quota massima. In conclusione, durante un’escursione a modesta altitudine non solo non vi è incremento del rischio coronarico nei pazienti con pregresso infarto del miocardio stabilizzato, ma questo tipo di esercizio fisico, per le sue caratteristiche e per la possibilità di modulazione sul singolo paziente, anche in base alla risposta della frequenza cardiaca, appare particolarmente indicato in questi pazienti. I pazienti coronaropatici possono soggiornare in montagna fino a 3000 metri, praticare escursionismo, sci da discesa e sci di fondo. Devono evitare freddo intenso, sforzi isometrici e stimoli emotivi. A quote superiori ai 3000 metri occorre una valutazione per singolo paziente. I pazienti coronaropatici con angina e/o sotto-livellamento ST durante il test ergometrico in pianura all’arrivo in quota devono limitare l’attività fisica durante i primi giorni, modulare l’esercizio fisico sulla base della frequenza cardiaca e non del carico di lavoro. Non esistono studi specifici riguardanti altre cardiopatie congenite o acquisite. Vi deve essere un approccio individuale che tenga conto del grado di severità della malattia, dell’evoluzione, del carico emodinamico, della funzione ventricolare, delle possibili complicanze e della correzione chirurgica. Affinché l’attività fisica durante un soggiorno in montagna non sia pericolosa, ma benefica, occorre tenere sempre presenti alcune norme generali. Prima di salire in quota, va eseguita un’accurata valutazione clinico-funzionale per stabilire il grado di severità della malattia, il livello di compromissione funzionale, il rischio di possibili complicanze e l’adeguatezza della terapia. Durante i primi giorni di soggiorno in quota, finché si svolgono le prime fasi del processo di acclimatazione, si deve limitare l’attività fisica, evitando passaggi particolarmente esposti e vie attrezzate che richiedono un elevato impegno muscolare di tipo isometrico e rappresentino un intenso stimolo emotivo.

 

La riabilitazione neurologica in montagna

 

Marika Falla, neurologa dell’Ospedale di Bolzano e membro del direttivo della S.Me.M., ha, poi, preso la parola per parlare di “Montagna e riabilitazione neurologica”. Lo stroke costituisce la seconda causa di morte negli adulti dopo l’infarto acuto del miocardio. La relatrice ha ricordato le raccomandazioni messe a punto dalla commissione medica dell’UIAA a proposito dei pazienti affetti da patologie di tipo neurologico che vogliono frequentare la montagna, consultabili all’indirizzo web theuiaa.org dell’UIAA. La riabilitazione è una parte essenziale della copertura sanitaria universale, insieme alla promozione della buona salute, alla prevenzione delle malattie, al trattamento e alle cure palliative. La riabilitazione aiuta un bambino, un adulto o un anziano a essere il più indipendente possibile nelle attività quotidiane e consente la partecipazione all’istruzione, al lavoro, alle attività ricreative e a ruoli di vita significativi come la cura della famiglia. In tutto il mondo si stima che circa 2,4 miliardi di persone vivano attualmente con una condizione di salute che potrebbe beneficiare della riabilitazione. Si prevede che il bisogno di riabilitazione in tutto il mondo aumenterà a causa dei cambiamenti nella salute e nelle caratteristiche della popolazione. Ad esempio le persone vivono più a lungo, ma con più malattie croniche e disabilità. Attualmente la necessità di riabilitazione è in gran parte insoddisfatto. In alcuni paesi a basso e medio reddito, oltre il 50% delle persone non riceve i servizi di riabilitazione di cui avrebbe necessità a causa di condizioni esterne sfavorevoli, come i conflitti, i disastri e le epidemie. La riabilitazione è una parte importante della copertura sanitaria universale ed è una strategia chiave per raggiungere l’obiettivo di sviluppo sostenibile 3-“Garantire vite sane e promuovere il benessere per tutti a tutte le età”. È stata progettata una serie di interventi volti a ridurre la disabilità di individui in condizioni di salute precarie, in interazione con il loro ambiente: allenamento del linguaggio e della parola per migliorare la comunicazione dopo una lesione cerebrale, allenamento all’attività fisica per migliorare  forza muscolare,  movimenti volontari e equilibrio nelle persone con ictus o malattia di Parkinson, modifica dell’ambiente domestico di una persona anziana per migliorare la sicurezza e l’indipendenza a casa e per ridurre il rischio di infortuni. Il recupero è previsto fino a sei mesi, con risoluzione della diaschisi (è l’inibizione neuronale che si verifica a distanza dalla sede di una lesione cerebrale, che può rallentare il recupero funzionale) e inizio della riparazione cellulare. Il recupero funzionale avviene puntando sulla plasticità cerebrale, che è la capacità del cervello di riorganizzarsi dopo aver subito una lesione. Tra le controindicazioni assolute: condizioni instabili come un ictus recente (meno di 90 giorni), attacchi ischemici transitori (TIA) nei mesi precedenti, tumori cerebrali. Inoltre, malattie neuromuscolari con importanti difficoltà respiratorie; soprattutto la prima notte dall’arrivo in quota si può osservare una importante riduzione di ossigeno durante il sonno che aggrava la preesistente carenza di ossigeno in questi pazienti. La neuropatia diabetica, a causa della carenza di ossigeno in quota, potrebbe aggravare il danno ischemico dei piccoli vasi. L’attività fisica regolare riduce il rischio di ictus, per esempio regolarizzando la pressione arteriosa, controllando l’ipercolesterolemia e l’aumento di peso. Inoltre, può migliorare la funzione endoteliale e ridurre l’aggregazione piastrinica, i livelli di fibrinogeno e la gravità di un eventuale ictus al suo esordio. L’inattività fisica (per esempio stare seduti oltre quattro ore al giorno) è compensata da un aumento degli allenamenti di attività fisica di intensità da moderata a vigorosa. La prevenzione primaria aiuta nel migliorare la funzione endoteliale. La relatrice ha accennato alle raccomandazioni messe a punto dalla commissione medica dell’UIAA rivolte ai pazienti affetti da malattie neurologiche che vogliono frequentare la montagna. Nei soggetti affetti da demenza le immagini di un paesaggio montano sembrano diminuire lo stato di ansia. Sembra anche che la pratica dell’arrampicata abbia effetti benefici per i soggetti affetti da sclerosi multipla. Va prevista una valutazione ad personam.

 

L’uso dei defibrillatori in montagna

 

Giancelso Agazzi, segretario della Commissione Centrale Medica del CAI, ha parlato di “Montagna cardioprotetta”. Il DAE (defibrillatore semiautomatico esterno) è un dispositivo di piccole dimensioni che, tramite due placche adesive applicate sul torace della persona colta da malore, è in grado di rilevare le alterazioni dell’attività elettrica del cuore.

Dopo esser stato applicato alla vittima in arresto cardiaco, il DAE è in grado di riconoscere la fibrillazione ventricolare, che è un’aritmia maligna del cuore (se non trattata porta alla morte), ed eroga una scarica elettrica che resetta il muscolo cardiaco e ne interrompe l’aritmia. Il progetto PAD è un programma di prevenzione della morte cardiaca improvvisa, mediante la diffusione dei defibrillatori portatili sul territorio. Ogni minuto che passa dall’inizio dell’arresto cardiaco riduce di circa il 10% le probabilità di successo della scarica elettrica, e dopo dieci minuti dall’inizio dell’arresto cardiaco i danni subiti a livello cerebrale potrebbero diventare irreversibili; la precoce esecuzione delle manovre di rianimazione cardiopolmonare aiuta a dilazionare questo momento.

Il medico e veterinario danese Peter Christian Abildgaard può essere ritenuto il padre della defibrillazione. Verso la fine del 1700 riuscì a fermare il cuore di una gallina e a farlo ripartire con una scarica elettrica.

La scoperta di Abildgaard diete impulso a un nuovo processo rivoluzionario che contemplava l’utilizzo dell’energia elettrica quale terapia per la fibrillazione ventricolare. Nel 1796, Adalbert Vincenz Zarda, professore all'Università di Praga ove teneva regolari corsi di rianimazione e di pronto soccorso, dette alle stampe un lavoro in cui erano descritti, oltre al metodo della respirazione artificiale bocca a bocca, anche il massaggio cardiaco esterno e la stimolazione elettrica del cuore.

 

Nel periodo compreso tra gli anni 40 e 50 venne realizzato il primo defibrillatore con piastre ad applicazione interna. A seguire venne realizzato dalla Zoll un prototipo con piastre da applicare esternamente sul torace.

La tempestività in certi casi è tutto. Un minuto in più o in meno può valere addirittura una vita umana. È il caso delle alterazioni elettriche del cuore, ovvero delle cosiddette fibrillazioni ventricolari, che ogni anno colpiscono l'uno per mille della popolazione e che possono essere efficacemente trattate solo se il primo soccorso avviene al massimo entro 7-8 minuti. In montagna la distanza dalle strutture sanitarie naturalmente rende tutto più complicato. L’incidenza di OHCA (Out of Hospital Cardiac Arrest) in Europa è di 67-170 casi/100.000 abitanti/anno nella popolazione generale.

Con l’aumento del numero di persone che praticano attività fisica, ludica e sportiva, è divenuta frequente la segnalazione di eventi cardiovascolari maggiori, quali morte improvvisa e infarto miocardico, durante o subito dopo esercizio fisico. Le morti improvvise di origine cardiaca (SCD) rappresentano circa il 10% di tutti i decessi in Italia.

Più del 60% delle morti improvvise tra la popolazione con meno di 40 anni.

La morte cardiaca improvvisa è la seconda causa di morte in montagna.
Un numero sempre maggiore numero di soggetti a rischio di morte cardiaca improvvisa frequenta l’ambiente montano (Burtscher M et al. NEJM 1993).

Per dare un’idea di come aumenta il flusso di turisti, soprattutto durante la stagione estiva, basti pensare che nel Tirolo Austriaco, dove ci sono 750.000 abitanti, nel 2013 sono stati registrati 43 milioni di turisti. In Trentino-Alto Adige nel 2019 ci sono stati dodici milioni di turisti contro un milione di abitanti. Nello stesso anno in Valle d’Aosta, dove si contano 120.000 abitanti, si è registrato un milione di turisti.

I rifugi forniscono un supporto logistico, ma anche un punto di primo intervento in caso di infortunio o di malessere. Uno studio effettuato su maschi di oltre 40 anni di età per valutare le morti improvvise in montagna ha evidenziato un caso su 780.000 soggetti. In Italia si registra un’incidenza di 86 arresti cardiaci in ambiente extra-ospedaliero ogni 100.000 abitanti. Circa uno su dieci di questi pazienti sopravvive, mentre uno su venti non va incontro a sequele di tipo neurologico. Secondo i dati presenti in letteratura (peraltro raccolti in modo non uniforme), in un solo terzo dei casi segnalati i presenti sono stati in grado di iniziare la rianimazione cardio-respiratoria (CPR) e il DAE è stato utilizzato raramente.  

 Secondo gli operatori del Soccorso Alpino, il rifugio è un punto di riferimento prezioso, che qualcuno ha definito, a ragione, una sorta di prima centrale operativa per la gestione e l'organizzazione di un’emergenza medica.

Nel 2005 la Commissione Rifugi della Sezione del CAI di Bergamo ha chiesto alla commissione medica di interessarsi delle dotazioni dei farmaci nei rifugi e nei bivacchi sezionali.

Nei rifugi della Sezione del CAI di Bergamo è prevista una dotazione di Primo Soccorso, compresi i DAE. Il progetto vanta 17 anni di esperienza. Nel 2007 è nato il progetto Bergamo Vita. Centoventi DAE semiautomatici sono stati assegnati alla provincia di Bergamo, di questi dieci sono stati messi a disposizione dei rifugi del CAI di Bergamo.

Nel 2023 è nato il “Progetto SOS Rifugi 2023”, che ha visto la collaborazione della commissione medica della sezione del CAI di Bergamo, del CNSAS e del 112 e ha previsto l’istallazione di DAE automatici in tutti i rifugi della Sezione. I DAE dovrebbero essere posizionati nei comprensori sciistici più popolari, nei rifugi e nelle strutture alberghiere ad elevata frequentazione, in occasione di eventi di massa, in aree remote ad alto passaggio, senza una copertura medica (Elsensohn F. et al. WEMJ 2006). Il coinvolgimento dei gestori dei dieci rifugi della sezione del CAI di Bergamo mediante i corsi di formazione BLSD si è dimostrato di fondamentale importanza. Nella catena del soccorso fondamentale è il ruolo dei rifugisti nel primo soccorso in montagna: sono spesso tra i primi a intervenire in situazione di urgenza come in caso di arresto cardiaco, possono comunicare in modo efficace con il 112 o con il CNSAS. Durante i corsi di BLSD i gestori dei rifugi hanno imparato a come allertare il sistema di soccorso, a riconoscere un’emergenza sanitaria, a utilizzare il kit di primo soccorso e a gestire infortuni e malesseri in ambiente montano. Durante i corsi i gestori dei rifugi imparano ad effettuare la rianimazione cardio-polmonare, utilizzando il DAE e il kit di ventilazione (BLSD).Alla fine della stagione è prevista una revisione dettagliata dei DAE da parte dei componenti della commissione medica del CAI di Bergamo. Vengono, inoltre, con regolarità organizzati i corsi di refreshing di BLSD. I DAE,  sono adesso in dotazione presso i rifugi Luigi Albani (1.939 metri di quota, a Colere), Alpe Corte (1.410 metri, ad Ardesio), Antonio Curò e Ostello al Curò (1.910 metri, a Valbondione), Antonio Baroni al Brunone (2.297 metri, a Valbondione), Fratelli Calvi (2.015 metri, a Carona), Fratelli Longo (2.026 metri, a Carona), Angelo Gherardi (1.647 metri, a Taleggio), Laghi Gemelli (1.968 metri, a Branzi), Mario Merelli al Coca (1.891 metri, a Valbondione) e Nani Tagliaferri (2.328 metri, a Schilpario). I nuovi DAE automatici esterni, sono all’interno di una teca ventilata e riscaldata che li protegge da polveri, agenti atmosferici e umidità, con il dispositivo salvavita facilmente accessibile in caso di necessità, come è semplice raggiungere la teca. Fino al 2013 i DAE sono stati utilizzati tre volte in tre casi con fibrillazione ventricolare, purtroppo con esito negativo nei rifugi Coca, Laghi Gemelli e Fratelli Longo. Nel 2023 con l’introduzione dei DAE automatici si sono avuti due arresti cardiaci testimoniati: uno presso il rifugio Alpe Corte uomo di 38 anni e un altro presso il rifugio Coca, un uomo di 59 anni. Il primo paziente purtroppo è morto dopo due giorni presso l’Ospedale Papa Giovanni XXIII a Bergamo. Il secondo è sopravvissuto ed è stato dimesso dopo una ventina di giorni in buone condizioni di salute. Entrambi i pazienti sono stati colpiti da un infarto acuto del miocardio e sono stati defibrillati grazie al tempestivo intervento dei gestori dei due rifugi. Presso la sede del CAI di Bergamo si è tenuta venerdì 10 maggio 2024 una cerimonia alla presenza del paziente che si è salvato e dei genitori del paziente deceduto e con i rifugisti che hanno praticato la defibrillazione.

Il relatore ha, poi, illustrato alcuni altri progetti riguardanti la cardioprotezione nei rifugi di altre regioni italiane ed estere.

Il CAI detiene sul territorio nazionale 311 rifugi custoditi, 65 rifugi incustoditi, 247 bivacchi, 88 capanne sociali, 10 punti d’appoggio, un ricovero d’emergenza per un totale di 722 strutture. Duecentodue rifugi non sono dotati di DAE. I rifugi svolgono servizi e hanno un ruolo di pubblico interesse per la sicurezza. Attualmente si ipotizza l’utilizzo dei droni che potrebbero essere di aiuto in caso di arresto cardiaco extra-ospedaliero, trasportando sul luogo dell’incidente un DAE. In conclusione il progetto messo a punto dal CAI di Bergamo ha sviluppato una dotazione di primo soccorso per rifugi ottimizzata per la bassa e media quota (max 2500 m sldm) e ha messo a disposizione un ampio database relativo ai consumi di presidi e farmaci nei rifugi. È stato il primo progetto descritto in letteratura di Pubblic Access Defibrillation / Early Defibrillation nei Rifugi non compresi in comprensori sciistici ed è stato il primo progetto di Pubblic Access Defibrillation / Early Defibrillation con fully-automated DAE. La morte cardiaca improvvisa in montagna si conferma un evento molto raro (incidenza ~ 1:1 milione). La presenza di un DAE in un rifugio migliora la dotazione di primo soccorso e offre una chance di sopravvivenza a una vittima di arresto cardiaco. Per il futuro si ipotizzano una raccolta dati, il mappaggio dei DAE presenti nel territorio montano, l’utilizzo di nuove tecnologie, la costituzione di un registro dedicato all’utilizzo dei DAE nei rifugi. Di fondamentale importanza è l’organizzazione di corsi di formazione BLSD per i gestori dei rifugi.

 

Montagna e bambini

 

Marta Betta, pediatra di libera scelta, ha presentato una relazione dal titolo “La montagna a dimensione dei bambini”.

Il benessere emotivo dei bambini in ambiente montano viene generato dal contatto con la natura, dall’attività fisica, dal senso di esplorazione e di avventura, dalla socializzazione e dalla coesione familiare e dal lavoro di squadra. Tutto ciò invita alla tranquillità e alla riflessione e contribuisce a far crescere l’autostima e la fiducia in sé stessi. Stare immersi nella natura produce un effetto calmante, riduce lo stress, offre un senso di pace e invita a non disturbare, incrementa lo sviluppo dell’empatia, lontano dalla quotidianità. La montagna invita il bambino a sperimentare attraverso l’esperienza percettiva dei sensi. L’esperienza diretta delle cose nella loro semplicità aiuta a sviluppare la capacità creativa dei bambini. Il rispetto della natura sottolinea l’importanza della conservazione e della sostenibilità, suggerendo anche di non abbandonare i rifiuti dove capita. Esplorare stimola la conoscenza e il rispetto della flora e della fauna alpine. La frequentazione della montagna permette di percepire e di apprezzare i rumori, i suoni e il silenzio del bosco. Le attività di gruppo in montagna insegnano molto. Il bambino impara a portare il suo zaino, ad affrontare la fatica, a rendersi indipendente, divenendo autonomo. Il salire non deve essere una gara, ma un piacere. Il bambino acquisisce la conoscenza dei pericoli, di come affrontarli e sviluppa il senso dell’orientamento. Impara ad accrescere l’attenzione, a dare più valore al tempo, ad avere pazienza e a gestire la frustrazione (il senso di noia).

 

Le persone fragili e la montagna

 

Daniela Tropiano, medico di base, è intervenuta per parlare della “Montagna nei soggetti fragili”. In letteratura non esiste un’esatta definizione di soggetto fragile. In tale situazione si assiste a una riduzione funzionale di più organi. Il concetto di fragilità non coincide con quello di disabilità. Non esiste uno strumento in grado di misurare tale condizione. Il soggetto vulnerabile è spesso affetto da più patologie e necessita di politerapia. Ha una ridotta autonomia e una ridotta resistenza allo stress, dovute al suo stato di malattia. Può presentare difficoltà nell’affrontare le problematiche di tipo sociale o familiare. La montagna rappresenta una grande palestra per il corpo e un solido rifugio per lo spirito. È una sana medicina, e può essere una saggia maestra di vita. Sappiamo che salendo in quota diminuisce la capacità dell’organismo di utilizzare l’ossigeno. Aumentano la ventilazione polmonare e gli ormoni dello stress. I polmoni costituiscono la prima difesa nei confronti dell’ambiente ipossico. In montagna diminuiscono gli allergeni oltre i 1500 metri. L’aria fredda e secca può causare broncospasmo negli asmatici. Il 60-80% degli asmatici soffre a causa del broncospasmo da esercizio. Le malattie respiratorie di tipo ostruttivo determinano dispnea. Si verifica un incremento delle secrezioni. Le terapie corticosteroidee devono essere adattate alla situazione. A 2000 metri la saturazione si riduce del 5%. I soggetti affetti da malattie polmonari di tipo interstiziale (sarcoidosi, fibrosi) devono soggiornare in media/bassa montagna. Le pneumopatie di tipo bolloso sono a rischio di pneumotorace. I soggetti affetti da anemia (<10 gr/dl Hb) sono più sensibili all’ipossia.

 

Incidenti sugli sci: monitoraggio e prevenzione

 

Albert Ballardini, amministratore delegato di Trentino sviluppo, esperto di sicurezza, Shamar Droghetti, responsabile dei soccorsi in pista e Michela Marchiori, responsabile del Prono Soccorso dell’Ospedale di Trento, hanno parlato di “Monitoraggio e prevenzione degli incidenti sugli sci in pista”. L’aumento della velocità degli sciatori, l’abuso di sostanze stupefacenti e l’abuso del cellulare sta provocando un incremento degli incidenti sulle piste di sci. Anche la mancanza di neve al di fuori delle piste è causa di incidenti. Tra il 2023 e il 2024 in Trentino si sono verificati 11.637 interventi di soccorso sulle piste, con 12.171 persone coinvolte (55% uomini e 45% donne). Le classi di età più coinvolte quelle tra 0-14 anni e tra 45-50 anni. Gli infortuni hanno colpito per il 47% gli arti inferiori. Seguono in ordine statistico i traumi degli arti superiori e il tronco. Un terzo degli infortunati è stato trasportato al pronto soccorso e un terzo presso il proprio domicilio.

Il 2% degli infortunati ha dovuto ricorrere all’elisoccorso, mentre il 40% all’ambulanza. Il 74% è stato vittima di cadute accidentali, il 12% di collisione tra persone. Tre su dieci hanno riportato distorsioni, mentre meno di uno su dieci ha riportato fratture. Nello 0,02% dei casi si è verificato un trauma cranico. La frequenza degli incidenti non ha dimostrato variazioni nell’arco dell’intera settimana. Gli incidenti si sono dimostrati più frequenti in caso di bel tempo (cielo sereno). Nel 54% dei casi la neve era compatta. Sono state realizzate delle mappe di rischio e un indice di gravità dei vari infortuni. Michela Marchiori ha segnalato che tra le vittime di incidenti in pista ricoverati in pronto soccorso il 52,3% era in codice verde, il 30,1% in codice giallo, il 3,7% in codice rosso, con un’età media di 36 anni. È stata realizzata la geolocalizzazione degli incidenti per individuare i punti delle piste più a rischio.

 

La seconda giornata

 

La mattina di sabato 8 giugno ha avuto luogo la seconda sessione del convegno, a cura della Società Italiana di Medicina dei Viaggi e delle Migrazioni (SIMVIM), moderata da Alberto Tomasi, presidente della SIMVIM, e da Maria Grazia Zuccaro del Dipartimento di Prevenzione dell’Azienda Sanitaria dell’Alto Adige.

 

Infezioni in alta quota

 

Primo relatore è stato Niccolò Ronzoni dell’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria (Negrar Valpolicella, (Vr), che parlato delle “Malattie infettive nell’arco alpino”. Tra le infezioni in alta quota il relatore ha citato quelle che colpiscono l’apparato gastroenterico (batteriche, virali o protozoarie), il sistema nervoso (rabbia, encefalite giapponese), l’apparato respiratorio (sinusiti, tracheiti, polmoniti), la pelle, l’apparato urogenitale (malattie a trasmissione sessuale), varie (malaria, dengue, febbre tifoide, leptospirosi). Tra le malattie che colpiscono l’apparato gastroenterico il relatore ha citato la giardiasi, una malattia causata da un protozoo flagellato che può contaminare cibo e acqua e che causa diarrea subacuta per oltre una settimana, con feci poco formate, dolore addominale, dispepsia e malassorbimento.Tra le malattie trasmesse da vettori quali le zecche la Borreliosi di Lyme e l’encefalite da zecche (TBE) (vettore Ixodes spp). Inoltre il West Nile virus, la dengue, il virus Zika, la Chikungunya. Tra i vettori la zanzara tigre (Aedes albopticus) e la zanzara comune (Culex pipiens). Il picco delle zanzare avviene tra luglio e agosto. La sorveglianza del West Nile virus si avvale dei “polli sentinella”.

Nel 2023 in Veneto si sono riscontrati 23 casi di TBE. Le zecche possono attualmente vivere fino a 1800 metri.

 

Di coperture vaccinali: regioni a confronto

 

Francesco Marchiori del Servizio di Igiene e Sanità Pubblica AULSS9 Scaligera (Vr), ha parlato delle “Coperture vaccinali nelle vallate alpine: regioni a confronto”. Molto importante è la prevenzione nelle vallate alpine. Pure i flussi di turisti dall’Est dell’Europa rivestono una certa importanza, soprattutto perché i tassi vaccinali sono più bassi. In Nepal i tassi vaccinali sono molto deboli. Oltre ai conosciuti benefici delle vaccinazioni in ambito montano è bene considerare che spesso ci si trova di fronte ad aree in cui è più difficile accedere ai servizi sanitari. Talvolta le vallate sono confinanti con altri stati. Si tratta di aree con un elevato livello di biodiversità e con presenza di specie animali con relativi rischi (camosci, cervidi). Sicuramente risulta più complessa l’organizzazione e la logistica dei servizi vaccinali rispetto alle aree di pianura. Anche in questo ambito la montagna presenta sfide che richiedono un grande impegno per il raggiungimento della cima. Nelle zone alpine dell’Italia le coperture vaccinali presentano una grande variabilità. Sarebbe interessante una valutazione a livello nazionale delle coperture nelle valli montane e relativo impatto. In alcune aree montane ottenere una copertura vaccinale non è semplice. Si nota una generale diminuzione delle coperture nelle valli rispetto alla media provinciale. Occorre indagare i determinanti dei differenti livelli di copertura tra valli rispetto alla media provinciale. Considerata l’ampia presenza di località montane nel territorio nazionale, l’analisi dettagliata della situazione vaccinale in questi luoghi potrebbe essere un importante fattore per un aumento complessivo delle percentuali di copertura.

 

La vaccinazione gratuita contro la TBE

 

È seguito l’intervento di Maria Grazia Zuccali, direttrice dell’Unità Operativa di Igiene e Sanità Pubblica del Dipartimento di Prevenzione dell’Apss di Trento, dal titolo “Offerta gratuita della vaccinazione contro la TBE: aderenza della popolazione ed efficacia”. La malattia viene trasmessa da zecche del genere Ixodes; raramente dall’ingestione di latte crudo o latticini non pastorizzati. Piccoli roditori del bosco sono gli ospiti serbatoio competenti del virus. Altri ospiti, come volpi, pipistrelli, lepri, cervi, cinghiali, pecore, capre supportano la circolazione del virus e consentono la moltiplicazione delle zecche. L’uomo è ospite causale a fondo cieco. La zecca presenta un ciclo vitale che dura tre anni e che si svolge in tre fasi: larva, ninfa, adulto. Lo sviluppo richiede periodici pasti ematici da un ospite vertebrato. Larve e ninfe si nutrono su roditori e altri piccoli mammiferi. Le femmine adulte si nutrono su mammiferi di media/grossa taglia (cervi). Le zecche prediligono il caldo umido temperato, zone boschive, altitudini fino a 2500 metri. La trasmissione di agenti infettivi può avvenire durante l’accoppiamento tra zecche infette o per via transovarica. Il fenomeno del cofeeding prevede la trasmissione dell’agente patogeno da zecca infetta a zecca non infetta, quando più zecche si alimentano contemporaneamente e raggruppate da uno stesso ospite non infetto. La zecca ricerca l’ospite e si mette in una posizione strategica in attesa del suo passaggio. All’estremità del primo paio di arti le zecche possiedono un organo sensoriale, chiamato organo di Haller, capace di avvertire le variazioni di temperatura, pressione e anidride carbonica che si verificano quando l’animale si avvicina. Tale organo percepisce le modifiche ambientali, sente la presenza dell’ospite. La zecca succhia il sangue dell’ospite attraverso una piccola area emorragica. L’aumento degli animali selvatici favorisce il diffondersi delle zecche. La TBE ha una prevalenza del 2% in Europa. Nelle province di Trento e Belluno l’incidenza è particolarmente elevata. Nel 2023 sono stati segnalati nella provincia di Trento 40 casi (5:100.000). Tra il 1992 e il 2023 sono stati registrati 277 casi (10 casi/anno). È stato effettuato uno studio di immunogenicità. Il vaccino ha una buona efficacia ed è ben tollerato. Tra le reazioni molto comuni (>1/10): al sito di iniezione (eritema, indurimento, gonfiore). Tra i sintomi comuni (>1/100): cefalea, nausea, mialgie, artralgia, stanchezza). Tra i sintomi non comuni (>1/1000): febbre, linfoadenopatia, vomito). Raramente possono comparire (>1/10.000): ipersensibilità, sonnolenza, vertigini, diarrea, dolore addominale).

Tra il 2002 e il 2017 sono state somministrate 3696 dosi di vaccino (231/anno). Tra il 2018 e il 2023 sono state sono state somministrate 119.409 dosi di vaccino (19,901/anno). Le vaccinazioni sono molto aumentate per chi fa escursioni nei boschi o vive in montagna. In Austria vi è una maggiore incidenza di TBE. La prevenzione della malattia si basa sulla somministrazione del vaccino, sulla protezione (abbigliamento adatto, repellenti), sulla valutazione dei percorsi, sull’ispezione del corpo dopo ogni escursione, sulla corretta asportazione della zecca e sul non consumo di latte e latticini non pastorizzati. Il vaccino è costituito da virus inattivati coltivati su cellule embrionali di pollo da somministrare per via intramuscolare in tre dosi. Tra le controindicazioni: grave ipersensibilità all’uovo e alle proteine dell’uovo (anafilassi) e al lattice (anafilassi).

 

Pneumococco: un sorvegliato speciale

 

Vincenzo Baldo, direttore della Scuola di Specialità in Igiene dell’Università di Padova, ha presentato una relazione dal titolo “Strategia anti-pneumococcica, lo stato dell’arte”. La capsula polisaccardica è responsabile della virulenza del batterio. Lo pneumococco o Streptococcus pneumoniae è un patogeno aerobio, Gram positivo, molto diffuso, responsabile di infezioni anche gravi, soprattutto nei bambini con meno di un anno e negli anziani. Esistono più di 90 sierotipi di Pneumococco, che si differenziano per il tipo di capsula. I bambini costituiscono il recevoir. È importante la sorveglianza. Il vaccino funziona. È molto efficace specie nei bambini. Contribuisce all’immunità di gregge. I risultati hanno mostrato che PCV 20 ha innescato un aumento dei livelli di anticorpi contro tutti i 20 sierotipi bersaglio del vaccino; tuttavia, per alcuni sierotipi i livelli di anticorpi osservati sono risultati inferiori con PCV 20 rispetto a quelli osservati con PCV13. Solo il regime a quattro dosi è stato approvato per l’immunizzazione infantile di routine. Si prevedono nuovi vaccini con nuove tecnologie.

 

Focus sull’antirabbica

 

Alberto Tomasi, presidente della SIMVIM, è, poi, intervenuto con una presentazione dal titolo “Le vaccinazioni in preparazione al viaggio con un focus sull’anti-rabbica”. Tre società scientifiche (Società Italiana di Igiene, Società Italiana di Medicina di Montagna e Società Italiana di Medicina dei viaggi e delle Migrazioni) hanno elaborato insieme un decalogo per andare in montagna in salute con consigli e indicazioni per promuovere la montagna in salute e sicurezza, parlando al punto 8 anche di vaccinazioni. In caso di escursioni in montagna si deve pensare anche alla propria situazione vaccinale, prendendosi il tempo per effettuare tutte le vaccinazioni raccomandate. Vanno consultati il proprio medico di famiglia o il servizio di Igiene per verificare di essere in regola con le vaccinazioni di routine. In particolare di essere a posto con la vaccinazione antitetano-difterite-pertosse ogni dieci anni per tutti, quella anti-influenzale e anti-pneumococcica per gli over 60 anni oppure, per effettuare quelle raccomandate per la zona dove si è diretti (per esempio, contro encefalite da zecche o rabbia). Tra i rischi per chi va in montagna le malattie infettive e le punture di insetti, l’incontro con animali, la diarrea del viaggiatore e malattie a trasmissione sessuale (STD). Lo sportivo è un viaggiatore ad alto rischio. Tra le malattie più comuni: malattie respiratorie (+31%), patologie gastrointestinali (+27,5%), problematiche dermatologiche (+22,5%). Di tutte le malattie la causa principale ha una eziologia infettiva. Il rischio di malattia non è collegato al viaggio, ma ad una maggiore suscettibilità alle infezioni da parte dell’atleta. I fattori che potrebbero essere chiamati in causa sono variazioni di altitudine, inquinamento, temperatura, umidità, allergeni, cibo e agenti infettivi. Perché vaccinarsi? Perché si è a rischio, per non ammalarsi, per adattarsi meglio a condizioni climatiche difficili e/o all’altitudine, per essere più in forma, per non limitare gli altri o le prestazioni del gruppo. Il relatore ha sottolineato l’importanza della tempistica. La vaccinazione dovrebbe avvenire 4-6 settimane prima della partenza, soprattutto se si prevedono più vaccinazioni. L’organismo impiega perlomeno 15 giorni a produrre gli anticorpi dopo una vaccinazione. Possono essere necessarie più dosi di vaccino. Anche gli escursionisti last-minute è bene che consultino il proprio medico di medicina generale o si rechino all’ambulatorio di Medicina dei Viaggi. I vaccini in generale non comportano una compromissione della prestazione fisica. La scheda vaccinale va, poi, programmata a seconda delle aree geografiche. Per un trekking in montagna si raccomandano le seguenti vaccinazioni da considerare anche in base alla destinazione: anti-pneumococcica e anti-influenzale, anti-tetano-pertosse-polio, anti-meningite quadrivalente, anti-morbillo-parotite-rosolia-varicella, anti-Hpv, anti-rabbica, anti-encefalite giapponese, anti-TBE, anti-febbre gialla, anti-tifica, anti-colerica, anti-dengue e anti chykungunya. Il tetano è maglia nera dell’Italia in Europa, dove è, attualmente, una malattia rara. L’Italia rimane il paese europeo che ne notifica il maggior numero. Nel 2017 sono stati segnalati 82 casi in Europa, di cui 33 in Italia (30-40% delle morti).

La rabbia è probabilmente la più antica malattia di cui si ha notizia. Il significato della parola rabbia deriva dal sanscrito “rabbahas” che significa fare violenza, con probabile riferimento alla terribile aggressività che manifestano gli animali colpiti da questa malattia, e anche gli esseri umani. Si tratta di una zoonosi causata da un virus della famiglia dei Rabdovirus, genere Lyssavirus. Colpisce animali selvatici e domestici e si può trasmettere all’uomo e ad altri animali attraverso il contatto con la saliva di animali malati, quindi principalmente attraverso morsi, ferite, graffi. La malattia è diffusa sia in ambiente domestico sia in quello silvestre. La rabbia può colpire non solo chi si muove nei boschi o nelle foreste, ma anche che si sposta da un villaggio all’altro o anche nelle città e nei villaggi dove sono presenti cani randagi.  Si tratta di una malattia che, come afferma l’OMS, se scoperta una volta che i sintomi sono già incominciati è tragicamente mortale al 99%, ma prevenibile al 100% qualora trattata subito dopo il contagio o addirittura eliminata dall’ecosistema tramite il vaccino. Proprio per questo conoscerla e sapere cosa fare qualora ci si trovasse a rischio di contrarla, può fare davvero la differenza. La vaccinazione primaria in pre-esposizione prevede tre dosi nell’arco di un mese e il richiamo va fatto ogni 2-3 anni. In post-esposizione in chi ha già effettuato il vaccino sono sufficienti due dosi di vaccino nei giorni 0 e 3. In tutti gli altri si somministrano immunoglobuline più quattro dosi di vaccino distribuite nelle due settimane successive. Se per qualsiasi motivo una dose viene ritardata, non si deve ricominciare, ma completare.

La stazione batteriologica di Odessa nel 1886 è stata la prima al mondo per la cura delle vittime della rabbia, trovandosi in Russia (oggi Ucraina), riguardava anche i morsi dei lupi. Le fiale di vaccino venivano da Parigi. Venne aperta due anni prima che venisse inaugurato lo stesso Istituto Pasteur. Si stima che 41-70 milioni di persone in tutto il mondo abbiano ricevuto il vaccino antirabbico su cellule Vero. Attualmente esistono due vaccini in Italia contro la rabbia.

 

Nutrirsi e alimentarsi nell’ambiente estremo

 

È seguita la presentazione di Donatella Polvara, del Gruppo Regionale Lombardo del CAI, dal titolo “Nutrizione e idratazione nella wilderness (ambiente estremo)”. Prima di un viaggio vanno effettuati uno studio del territorio e della strategia di approvvigionamento alimentare. Ci si deve regolare in base al tipo di attività svolta e alle condizioni climatiche, all’altitudine. Vanno valutati eventuali punti di approvvigionamento di liquidi e di rifornimento viveri lungo il percorso e il tipo di supporto logistico. Utile l’utilizzo di cibi liofilizzati con tempo di cottura veloce, piccolo formato, basso peso e alto potere calorico. Preferibile la conservazione sotto vuoto del cibo per evitare la contaminazione batterica. Si deve considerare ciò che la natura può offrire. Per esempio alcune tribù peruviane hanno utilizzato la pianta Maca per aumentare i livelli di energia e di prestazioni già da 2000 anni. La pianta, che cresce tra i 3500 e i 4000 metri, viene cotta e consumata nella sua forma grezza, ma può essere assunta anche in polvere. Si tratta di una radice ricca di sostanze nutritive con proprietà stimolanti, ad alto contenuto di proteine, carboidrati complessi, fibre, vitamine varie, fosforo, ferro e rame. La colina presente migliora l’aspetto cognitivo, la funzione epatica, il metabolismo sistemico lipidico.

Il Ras El Hanout è una miscela di circa 30 diverse piante (zenzero, curcuma, pepe, coriandolo, cumino, cardamomo, noce moscata, alloro, peperoncino). Contiene vitamina C, A, E, J (colina), sali minerali e vitamine del complesso B/acido folico. È un anti-ossidante, antibiotico, digestivo, diuretico, combatte il calore (potente vasodilatatore).

Le antocianine, un gruppo specifico di flavonoidi, sono responsabili per i colori rosso, blu e violetto di fiori e frutta. Sono contenute soprattutto nell’Aronia (1480 mg. per 100 grammi), una pianta che produce bacche nere simili ai mirtilli. Anti-ossidanti, le antocianine riducono i radicali liberi e contrastano lo stress ossidativo. Anche il cioccolato fondente è un ottimo alleato del trekking. Migliora la biogenesi mitocondriale, offre protezione ai neuroni, migliora il tono dell’umore e riduce l’infiammazione. La bio-ottimizzazione è importante nella strategia nutrizionale per sostenere l’attività mitocondriale e la termogenesi. La frutta secca pesa poco, si conserva bene e assicura molta resa. Molto importante è un’attenta idratazione, utilizzando acqua o bevande isotoniche. Tra i cibi a basso peso e con alto potere calorico: galletta di avena, liofilizzati, mais/tapioca, crema di riso, purea liofilizzata, polenta di mais/semolino, formaggi tipo grana, noodles, speck, frutta disidratata, carne essicata, pemmican, barrette proteiche. È importante imparare dai popoli che vivono in ambienti estremi. Gli studi scientifici sulla correlazione tra cibo, stile di vita e salute, iniziati negli anni ’50 dal biologo americano Ancel Kays, pioniere della dieta mediterranea, proseguono ancora oggi. La maggior parte porta a risultati sorprendenti. Sono la chiave di lettura per interpretare il delicato equilibrio tra salute e malattia. L’ultima frontiera della scienza pone al centro lo studio delle capacità anti-ossidanti degli alimenti, chiamati in causa per i loro effetti benefici sull’organismo umano. Emerge chiaramente che l’habitat e l’alimentazione influenzano il delicato equilibrio tra salute e malattia. Il cibo è il compagno di viaggio di una pausa meritata, in netta simbiosi tra uomo e natura, ma anche un alleato, con lo stile di vita, per assicurare il raggiungimento dei nostri obiettivi sportivi e mantenerci sani e in forma a lungo nel tempo.

 

Lo spiacevole caso della diarrea del viaggiatore

 

È seguita la presentazione di Gian Paolo Chiecchi, infermiere dell’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar (Vr), che ha parlato di “Prevenzione e gestione “sul campo” della diarrea del viaggiatore”. La patologia in oggetto nel mondo viene chiamata Montezuma’s Revenge, Curse of Tutankhamen o Delhi Belly. Consiste nell’emissione di feci liquide o semiliquide, che ha luogo di solito in più scariche giornaliere, o anche in un’unica evacuazione. Può essere provocata da numerose cause. La cura della diarrea è possibilmente causale: spesso è soltanto dietetica o farmacologica (antibiotici). Solitamente si autolimita. Secondo l’OMS costituisce la terza causa di morte nei bambini da uno a 59 mesi di età. Ogni anno la diarrea uccide circa 443.832 bambini al di sotto dei cinque anni di età. Una quantità significativa di casi di diarrea può essere prevenuta adottando norme igieniche adeguate. A livello globale sono segnalati circa 1,7 bilioni di casi di diarrea ogni anno tra i bambini. La malattia è tra le principali cause di malnutrizione tra i bambini al di sotto dei cinque anni. Il Sud e il Sud-Est dell’Asia sono le aree a maggior rischio, dove l’incidenza della malattia è uguale o superiore al 20% dei viaggiatori. Le aree rurali sono più a rischio (7-8%). Non esiste differenza tra uomini e donne. Gli studenti e i giovani sono i più colpiti. Il tipo di alloggio può aumentare il rischio. Non esiste un vaccino contro tale patologia. Il comportamento è cruciale. Per prevenire la diarrea è fondamentale il lavaggio/disinfezione delle mani. Un approccio prudente nei confronti dell’ambiente costituisce sempre la strategia migliore. I cambiamenti nella dieta, il frequentare i ristoranti locali e il soggiornare in sistemazioni basiche aumentano il rischio di contrarre il disturbo. Tra le misure di prevenzione: bere acqua e bevande imbottigliate e sigillate, bevande bollite (caffè o tè), mangiare cibi cotti (>60°C per almeno un minuto) (zuppa, riso, pasta), scatolame. Importante il lavaggio accurato di utensili alimentari, contenitori, attrezzature o superfici. Evitare di bere acqua del rubinetto e bevande con ghiaccio, alimenti crudi (carne cruda, frutta e verdura crude), crostacei, cibi e salse oleose e piccanti, latte non pastorizzato, formaggio, gelato e yogurt. I patogeni che possono contaminare l’acqua appartengono a quattro categorie: batteri (80-90%), virus (5-15%), protozoi (10%) e elminti. La probabilità di incontrare uno di questi agenti infettivi dipende dall’ambiente in cui ci si trova e dall’acqua contaminata. Per il trattamento si devono prescrivere soluzioni reidratanti, fermenti lattici e, loperamide e azitromicina (500 mg al giorno per tre giorni).

 

Acqua: l’importanza di renderla potabile

 

È seguita la relazione di Andrea Rossanese, medico dell’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar (Vr), dal titolo “Potabilizzazione dell’acqua nel corso di viaggi avventurosi”. Importante è ridurre il numero di microrganismi a somministrazioni un livello accettabile. Ci si deve lavare per ben