Deuxième Journée Scientifique et Médicale Montagne et Altitude”

 

Dalle patologie causate dall’alta quota ai problemi medici nel corso dell’esplorazione spaziale

G.C. Agazzi

 

Venerdì 14 giugno 2019 si è tenuto presso l’anfiteatro dell’ENSA (Ecole Nationale de Ski et Alpinisme”) a Chamonix  la “Deuxième Journée Médicale Montagne et Altitude”, organizzata da Paul Robach, Alice Gavet e Samuel Vergès dell’Association EXALT di Grenoble.

La prima relazione è stata del Prof. Gianfranco Parati del Centro Auxologico di Milano, che ha parlato degli effetti dell’alta quota sulle malattie cardiovascolari. Parati ha effettuato numerosi studi clinici oltre che sulle Alpi (Capanna Margherita, 4559 m.), anche nel corso di spedizioni alpinistiche in Himalaya e sulle Ande. Ha ricordato che oltre cento milioni di visitatori sono presenti ogni anno sulle Alpi. Alcune raccomandazioni riguardanti le malattie cardiovascolari in alta quota sono state messe a punto da ricercatori esperti. Ha parlato del ruolo della concentrazione plasmatica dell’endotelina-1 che ben si correla alla pressione dell’arteria polmonare quando si sale in alta quota. SA mano a mano che aumenta l’altitudine la ventilazione polmonare si incrementa (iperventilazione), e la concentrazione di anidride carbonica nel sangue si abbassa (ipocapnia). Attraverso l’utilizzo di “wearable sensors” (sensori collocati negli indumenti), servendosi della telemedicina (“progetto magic”), Parati ha studiato l’andamento del sonno in Himalaya (“Highcare Himalaya”) tramite la polisonnografia nel corso di una spedizione all’Everest in Nepal. E’stato studiato l’andamento dei valori della pressione arteriosa durante le varie fasi della spedizione. Le variazioni più rilevanti si verificano nel corso della notte, anche se in alta quota si assiste nell’intero arco delle 24 ore a un aumento della pressione arteriosa, di cui è responsabile l’attivazione del sistema simpatico (aumento della noradrenalina). Ecco perché è importante misurare i valori pressori prima e durante una spedizione in altitudine specialmente nei soggetti ipertesi. Può essere necessario variare la posologia dei farmaci antipertensivi con l’intento di contrastare l’aumento della pressione arteriosa. Parati ha parlato dell’incremento dell’attivazione della trombina, sottolineando che in alta quota il sangue coagula più in fretta. Nel corso delle varie spedizioni è stata studiata anche la rigidità delle arterie, in condizioni di ipossia ipobarica, valutando la densità del sangue che in alta quota è più viscoso.

Damian Bailey, Royal Society Wolson Researh fellow, ha presentato una relazione dal titolo “Ossigeno, gravità e radicali liberi nel cervello”. Nel corso del suo intervento il ricercatore ha parlato degli studi effettuati nel suo laboratorio di ricerca sull’ipossia. In particolare dell’origine, dei meccanismi e delle conseguenze causate dai radicali liberi che, generati dall’ipossia, sembrano rappresentare una risposta adattiva alla carenza di ossigeno. Il laboratorio è fornito di una camera ipossica in grado di simulare l’alta quota con lo scopo di studiare con raffinate tecniche l’impatto della mancanza di ossigeno sul cervello.

Guillemette Gauchelin-Koch di Parigi ha presentato, invece, una comunicazione dal titolo ”Dall’esplorazione spaziale alla sanità sulla terra”, illustrando tutte quelle alterazioni cui l’organismo umano va incontro durante e dopo i voli nello spazio causate in particolare dalla microgravità, dal confinamento e dalle radiazioni. La ricerca nel campo della bio-astronautica si occupa dello studio dell’adattamento dell’organismo umano alle condizioni di volo in stato di sedentarietà. La relatrice ha, poi, parlato delle stazioni spaziali Samut-Mir russa, SkyLab stazione spaziale degli USA, ISS, stazione spaziale internazionale e della stazione spaziale cinese. L’apparato cardiovascolare si deve adattare alle condizioni esistenti nello spazio. Si assiste a una riduzione della capacità di esercizio, a una tachicardia a riposo e a una ipotensione ortostatica. Avviene un “decondizionamento cardiovascolare”. Nello spazio l’organismo va incontro a un rimodellamento del tessuto osseo. Compare un’osteoporosi precoce. Anche il metabolismo va incontro a dei processi di adattamento. Pure il sistema immunitario può subire intense sollecitazioni.

Paul Robach, ricercatore dell’ENSA di Chamonix, ha presentato una relazione dal titolo “Medicalizzazione in alta montagna: prevenzione o aiuto alla performance?”. Il relatore si è domandato se l’uso dei farmaci può essere legato alla prevenzione delle patologie provocate dall’alta quota oppure semplicemente a migliorare la prestazione fisica. L’acetazolamide, i glicocorticoidi, la nifedipina e gli inibitori della fosodiesterasi sono i farmaci più usati per curare le patologie provocate all’alta quota. Non essendo l’alpinismo una disciplina di tipo competitivo, non esiste un regolamento anti-doping. L’assunzione di farmaci da parte degli alpinisti può, talvolta, rappresentare un problema per la sicurezza soprattutto a causa degli effetti collaterali. I farmaci possono mascherare l’affaticamento, permettendo di oltrepassare i limiti fisici e psichici degli alpinisti e mettendo a rischio la loro salute. Paul Robach ha parlato del documento messo a punto dalla Commissione Medica dell’UIAA dove si parla di etica e del corretto utilizzo dei farmaci. Tra il 1963 e il 2015 sono state organizzate 262 spedizioni all’Everest. L’uso dell’acetazolamide é stato utilizzato nel 69% dei casi come prevenzione, nel 25% per trattare il male acuto di montagna, in altri casi per aumentare la possibilità di raggiungere la vetta o per migliorare la prestazione fisica. II relatore ha descritto lo studio da lui effettuato presso i rifugi del Gouter e dei Cosmiques, nel massiccio dei Monte Bianco, su campioni di urina in alpinisti maschi. Si è evidenziato che 35,8 % dei soggetti esaminati assumeva almeno un farmaco. Ha sottolineato il pericolo per la sicurezza per coloro che assumono sonniferi in alta quota.

E’ seguita la presentazione della campagna di informazione “Sonniferi +Alpinismo=cattivo cocktail”(“Somneil et Alpinisme= mauvais cocktail”) a cura della Fondazione Petzl. L’assunzione di un sonnifero seguita da una notte breve (meno di 5 ore di sonno) altera le capacità fisiche e mentali. Un sonno perturbato senza assumere sonniferi non compromette la buona riuscita di un’ascensione. Questa campagna d’informazione è stata sostenuta dal risultato di studi scientifici realizzati recentemente dal Laboratoire HP2 INSERM dell’Università di Grenoble. Il sonno in alta quota è perturbato a causa della carenza di ossigeno, ma gli ipnoinducenti andrebbero comunque usati con estrema prudenza e solo se effettivamente necessario. Il rischio é che il loro impiego si ripercuota sulla prontezza di riflessi durante l’attività. E’seguita una tavola rotonda cui hanno partecipato Samuel Vergès, Pierre Buzat e Paul Robach.

Nel pomeriggio Jean-Michel Cazenave di Grenoble ha parlato di “Aeronautica e ipossia: un ritorno di esperienza”. Il relatore ha illustrato le condizioni in cui si trovano a volare i piloti militari dei caccia: la carenza di ossigeno, i barotraumi, il rischio di atelettasie, la decompressione, le forti accelerazioni, le aeroembolie.  La cabina degli aerei è pressurizzata a 1950 metri, mentre il plafond di volo é di 15.240 metri. I piloti devono avere il supporto dell’ossigeno e disporre di un sistema anti-G.

L’”equipe Expedition 5300” ha, poi, preso la parola per affrontare il tema dell’ “Adattamento e intolleranza all’alta quota nella città più alta del mondo”.

Si tratta di un gruppo di ricercatori che per circa un mese ha soggiornato e condotto studi a La Rinconada, località delle Ande peruviane, dove esiste una miniera d’oro e dove vivono più di cinquantamila abitanti a 5300 metri di quota. Le ricerche sono state fatte sulla popolazione locale residente in alta quota per valutare la viscosità del sangue, la rigidità delle arterie, la velocità del flusso sanguigno nell’arteria cerebrale media e la reattività vascolare sistemica. Alcuni cardiologi hanno, inoltre, effettuato studi ecocardiografici per osservare le variazioni delle cavità cardiache dei soggetti residenti in alta quota. L’analisi dei dati raccolti non è ancora stata completata.

Jean Paul Richalet, fisiologo di Parigi, è, poi, intervenuto per parlare dei fattori di rischio genetici per la malattia di Monge, nota anche come malattia cronica di montagna. Ci si domanda se le popolazioni andine sono adattate all’alta quota. Circa 140 milioni di persone al mondo vivono a oltre i 2500 metri di quota. La mandibola di un denisoviano è stata trovata in Tibet risalente a 160.000 anni fa: questo spiega il maggiore adattamento all’alta quota delle popolazioni tibetane rispetto a quelle andine. La popolazione andina è rappresentata da una miscela di geni, in parte di origine europea. La malattia di Monge è una patologia che ha una prevalenza compresa tra il 5 e il 15% delle popolazioni andine. E’caratterizzata da un eccessivo aumento dell’emoglobina e dell’ematocrito e da una diminuzione del contenuto in ossigeno nel sangue. La malattia porta una insufficienza cardiaca, a disturbi neurologici e a un’ipoventilazione notturna. Tra questi soggetti è più frequente l’obesità. La presenza di alcuni geni di origine europea giustifica il cattivo adattamento alla quota di questi soggetti rispetto ai tibetani. Tre geni sono associati all’aumento dell’emoglobina. Richalet ha concluso dicendo che occorrono altri studi genetici per meglio comprendere la malattia di Monge.

E’seguita la presentazione di Aurelien Pichon, dell’università di Poitiers, dal titolo “I segreti dell’EPO”. L’eritropoietina ha un’emivita di 7-8 ore. I suoi effetti benefici sono numerosi: aumenta l’angiogenesi, è anti-infiammatoria, ristabilisce il flusso sanguigno attraverso un processo di rivascolarizzazione, è anti-ossidante e protettiva per l’apparato cardiovascolare, per il sistema nervoso, per l’occhio e per il rene.  E’un mediatore importante della ventilazione in ipossia.  Agisce sull’infiammazione e sul sistema immunitario. E’ in grado di migliorare il metabolismo ossidativo dei muscoli. Mentre l’aspetto negativo è rappresentato da un effetto “pro-tumorale”, che ha come conseguenza  la diffusione di metastasi.

Dominique Jean, pediatra di Grenoble, ha, poi, illustrato i problemi del bambino in montagna, parlando dello Score di Lake Louise, che permette di valutare la presenza del male acuto di montagna nei bambini. Il rischio di edema polmonare nel bambino non è più elevato rispetto a quello dell’adulto, ma bisogna, tuttavia è necessario avere qualche cautela in vista di un’esposizione all’alta quota. Alcune situazioni cliniche favoriscono l’insorgere delle patologie di alta quota: infezioni respiratorie, Trisomia 21, agenesia dell’arteria polmonare. Il neonato deve dormire supino per evitare il verificarsi di morti improvvise. Deve dormire in un ambiente non troppo secco. Nelle stazioni di sci alpino sono molto frequenti nel bambino le bronchioliti.

Il convegno è terminato con la presentazione di alcuni casi clinici.