Carlo Mauri, nato in salita

A Lecco si sta svolgendo una mostra dedicata a quello che potremmo definire l’alpinista più tenace, affascinante e irriso dalla fortuna tra tutti i grandi della montagna.

 

Nello spazio espositivo del Palazzo delle Paure di Lecco, si protrarrà fino al 30 novembre 2022 la mostra organizzata per celebrare il quarantesimo anniversario della scomparsa di Carlo Mauri. La manifestazione racconta le tappe di una vita segnata da sofferenza e ostacoli all’apparenza insormontabili, ma anche da una tenacia e da una forza d’animo che di fatto hanno permesso di superarli. Il messaggio lanciato in maniera inequivocabile dalla mostra è quello di non lasciarsi scoraggiare mai dai limiti che un destino prevaricatore può porre lungo la strada che porta alla realizzazione dei propri obiettivi. L’allestimento punta soprattutto a mettere in luce l’incontro tra Mauri e il chirurgo Ilizarov, il quale, grazie a una tecnica da lui stesso ideata, riuscì a ridare funzionalità alla gamba menomata dell’alpinista.

Nato a Rancio, una frazione di Lecco il 25 marzo del 1930, Carlo Mauri, Bigio per gli amici, è stato un alpinista ed esploratore famoso in tutto il mondo. Fu uno dei promotori, tra l’altro, dei “Ragni della Grignetta”, gruppo cui rimase sempre legato. Nel 1953 salì con Walter Bonatti in inverno la via Cassin alla Cima Ovest di Lavaredo e, poi, a distanza di 48 ore, la parete nord della Cima Grande di Lavaredo, lungo la via Comici. Nel 1956, a ventisei anni, salì sulla vetta del Sarmiento in America del Sud. L’8 agosto del 1958 realizzò la sua impresa più prestigiosa, raggiungendo, in cordata con Walter Bonatti, la vetta del Gasherbrum IV (7925 metri) nella valle del Baltoro in Pakistan.

La vita di Mauri ebbe due fasi: quella dell’alpinismo, fino al fatidico febbraio del 1961, quando, durante una sciata in compagnia dell’amico Walter Bonatti, a Courmayeur, sulle piste dello Checrouit per imparare la tecnica del “corto raggio”, sotto la guida di Gigi Paney, direttore della locale scuola di sci, cadde e si fratturò la gamba destra (frattura biossea nel segmento distale, non esposta). Era la vigilia della spedizione al Denali, in Alaska, per la cui preparazione Carlo si era molto speso. Dovette per forza rinunciare all’impresa, capitanata da Riccardo Cassin. Si dice che il successo che coronò la spedizione fu per lui, comunque, fonte di gioia.

 Qui la sua vita subì una svolta. A causa del banale incidente dovette, infatti, abbondonare l’attività alpinistica di punta. Iniziò per lui un periodo travagliato. Dopo 2-3 mesi di gesso il callo osseo non si era formato (nonostante avesse appena 31 anni). In realtà, tentò di riprendere l’attività alpinistica, senza riuscirci. Gli era impossibile ritornare alla originaria forma fisica, che gli avrebbe permesso di competere con gli altri alpinisti.

Da quel momento fatica, sacrificio e determinazione caratterizzarono la sua vita. Non si rassegnò, comunque, e si rivolse a numerosi ortopedici per cercare di risolvere i problemi della sua gamba massacrata.

Oltre a una pseudo-artrosi e a un equinismo del piede, subentrò un’osteomielite nella sede della frattura. Si sottopose a un intervento di splenectomia, per una piastrinopenia che era subentrata e alla quale i medici attribuivano la mancata formazione del callo. Dovette sottoporsi a due interventi chirurgici per l’estrazione di un calcolo renale e, poi, come se non bastasse, ebbe un infarto del miocardio, in seguito al quale i sanitari dissero che non avrebbe più potuto andare in montagna.

“Così com’ero conciato avrei potuto lasciarmi andare”, scrisse tra le sue memorie,”ed entrare a far parte della lunga schiera degli uomini vinti: diventare un invalido professionista, assistito dalla compassione e dall’assistenza sociale, alla quale davo in cambio l’olocausto della mia vita sacrificata”.

Invece, Carlo ricominciò a viaggiare, a visitare continenti. Da alpinista, divenne esploratore, con l’intento di conoscere le genti che popolano il mondo. Nel frattempo la frattura si era consolidata, ma la deformità della gamba, accorciata di tre centimetri e mezzo, rimaneva.  L’osteomielite era sempre presente, testimoniata dalla saltuaria fuoriuscita di pus. Uno stivaletto rigido e l’utilizzo dei bastoncini da sci lo aiutarono a riprendere una certa attività fisica, compensando ipometria e deformità.

Era solito dire:”Faccio più forza sulle mani e sulla gamba sana. Basta stare attenti e si va bene lo stesso”. Era maledettamente determinato e sopportava in modo stoico la sua croce. “La mia gamba resti pure martoriata e menomata; peggio per lei, io vado in montagna e lei deve seguirmi”.

Nel 1964 riprese l’attività sul Monte Bianco (Dente del Gigante, Aiguille du Midi), l’anno successivo fu la volta del Monte Rosa e delle Dolomiti. Nel ’66 ritornò in Patagonia e sulle Ande. I compagni che lo affiancavano non lo sentirono mai lamentarsi. Nel ’66 se ne stette per quattro mesi nella foresta amazzonica.

Poi, se ne andò tra gli aborigeni dell’Australia. Visitò le distese ghiacciate del Polo Nord e dell’Antartide, servendosi di slitte. Ripercorse con cavalli e cammelli la “via della seta”.

 

L’incontro

Ma fu l’antropologo norvegese Thor Heyerdhal, scienziato eclettico, che, per sostenere le sue teorie, inventò imprese al limite dell’umano. Nel maggio del 1969 organizzò un’attraversata dell’Oceano Atlantico dall’Africa fino alle coste americane, servendosi del “Ra”, una imbarcazione costruita con canne di papiro e funi di fibra di palma. Voleva  dimostrare che gli antichi Egizi avevano raggiunto l’America prima di Cristoforo Colombo. Carlo Mauri venne ingaggiato come cine-operatore dell’attraversata, con altri sei uomini: un antropologo messicano, un navigatore statunitense, un subacqueo egiziano, un giovane proveniente dal Ciad, che conosceva l’utilizzo del papiro. Fu qui che fece la conoscenza del medico russo Yuri Alexandrovic Senkevich, che proveniva dal centro militare di addestramento e ricerca spaziale sovietici. L’impresa si dovette fermare dopo 54 giorni di navigazione a 500 miglia dalle coste della Guyana Francese, ma venne ritentata un anno dopo più o meno con le stesse persone a bordo del “RaII” ed ebbe successo. Dopo 57 giorni di mare l’equipaggio arrivò a Bridgetown nelle isole Barbados. Nel 1977 Mauri e Senkevich si trovarono ancora insieme sul Tingri, di nuovo su una barca di papiro. Questa volta vollero affrontare l’attraversata dell’Oceano Indiano, per dimostrare l’abilità nella navigazione dei Sumeri. Fu in tale occasione che Senkevich si prese cura della gamba di Mauri.

Gli disse: “Ma come fai ad andare avanti in queste condizioni? Qui ci vuole un intervento! Sai, conosco un chirurgo in Siberia che sugli arti è veramente in grado di fare miracoli…si chiama Ilizarov, ti ci porto io!”

Poi aggiunse: ”Carluscia (così lo chiamava affettuosamente) sei mio fratello: non so per chi è più importante che guarisca la tua gamba, se per te o per me. Credimi, io sono medico e capisco quanto deve essere difficile per te vivere da quasi vent’anni zoppicando. Sogno che tu guarisca e credo che Ilizarov possa fare il miracolo”.

 Gavrijl Abramovich Elizarov (Ilizarov lo divenne a causa di un errore di trascrizione dell’anagrafe) era nato il 15 giugno del 1921 a Belavezha, al confine tra la Polonia e la Bielorussia. Figlio di pastori e analfabeta fino a 12 anni, di origine ebrea, proveniva dal Daghestan sul Mar Caspio. Nonostante le ristrettezze riuscì a studiare medicina a Simferopoli in Crimea per due anni.  A causa della invasione tedesca nel corso della Seconda Guerra Mondiale, si trasferirsi a Kyzylorda, una città del Kazakistan, dove si laureò in medicina. Lo stato russo, in seguito, gli assegnò per tre anni la sede di Kurganskaya, in Siberia, dove iniziò a esercitare la professione medica. Venne, poi, trasferito a Kurgan, nella Siberia Occidentale, per dirigere un istituto nel quale venivano curati pazienti affetti da lesioni dell’apparato muscolo-scheletrico. Un testo riporta che:“mise a punto, grazie al suo singolare intuito, un apparato di fissazione esterna a configurazione circolare, che, con semplici fili metallici incrociati, era in grado di immobilizzare in modo stabile l’osso, nel pieno rispetto della biologia; otteneva in tal modo consolidazioni più rapide di artrodesi, fratture, pseudoartrosi, gravi osteomieliti e pure correzioni di deformità”.

Quello che il medico visionario aveva compreso era che solo la vascolarizzazione dell’osso poteva condurre a una vera guarigione della frattura. Scoprì che la distrazione progressiva di un segmento osseo fratturato poteva portare alla formazione di un nuovo osso interposto che chiamò “rigenerato”.

Uomo integro e tenace, eroe del lavoro sovietico e membro dell’Accademia delle Scienze di Mosca, Ilizarov si fece poco alla volta conoscere in tutta l’Unione Sovietica e nei paesi del Patto di Varsavia, nonostante le invidie, l’incomprensione e la diffidenza di molti colleghi ortopedici.

Venne, per la sua professionalità, chiamato il “Michelangelo dell’ortopedia”.

La sua fama crebbe dopo che ebbe curato il saltatore in alto sovietico Valerji Brumel, primatista del mondo e medaglia d’oro nel 1964 alle Olimpiadi di Tokyo. In seguito a un grave incidente di moto nel 1965 riportò una frattura esposta di tibia e perone molto grave, simile a quella riportata da Mauri.

Il primo contatto con Ilizarov Mauri lo ebbe nel gennaio del 1979.

Nella primavera del 1980 venne ricoverato in una cameretta del reparto giovani presso l’Istituto di Traumatologia e Ortopedia Sperimentale e Clinica di Kurgan, dove fu operato in anestesia peridurale il 4 aprile, dieci giorni dopo il suo cinquantesimo compleanno. L’intervento ebbe una durata di un’ora e mezzo. Mauri dovette trascorrere tre mesi nella clinica siberiana.

Ecco come ha descritto nei suoi scritti il chirurgo:” Come una folata di vento arriva Ilizarov e tutta la sala si mette a muoversi come fosse una barca a vela. Ilizarov ha sempre premura, anche a finir di fumare una sigaretta, ha tanto da fare; il suo estro mette nella mente e nell’animo come un soffio che avvia. Una tela mi impedisce di vedere le mie gambe. Vedo, però, la tuba bianca, in capo a Ilizarov, restare quasi immobile come le ceste di frutta portate in testa dalle haitiane. Gli assistenti, invece, gli si agitano attorno eseguendone gli ordini. Sento scalpellare, trapanare con i tocchi precisi di un maestro artigiano, e ogni colpo dice: “da da da” o”tak tak tak”. “Il mio stato d’animo”, avrebbe affermato,”era franco come quando ci si dirige verso la cima di una montagna alta 8000 metri, dove pure col fisico debilitato dalla mancanza di ossigeno e dalla lunga fatica, continuo a camminare, ad arrampicare, a salire, scoprendo e usando le forze della passione, della fede e dello spirito”.

Rientrato in Italia percorse parte a piedi e parte a cavallo “la via del sale e dell’olio d’oliva” da Dolceacqua a Ginevra, attraverso le Alpi Occidentali.

Il soggiorno di Mauri in Siberia destò l’interesse e la curiosità degli ortopedici dell’ospedale di Lecco. Angelo Villa e Roberto Cattaneo furono tra i primi. Mauri conosceva Angelo Villa fin dall’infanzia. Abitava, infatti, a San Giovanni, una frazione di Lecco non lontana da Rancio. Villa, incuriosito dal trattamento ideato da Ilizarov, seguì sempre le vicissitudini dell’alpinista. Il 14 giugno del 1981 Roberto Cattaneo organizzò un convegno a Bellagio sul trattamento delle infezioni dell’osso, cui partecipò Ilizarov, che presentò alcune comunicazioni. Vi presero parte oltre duecento ortopedici, provenienti da tutta Italia. L’ospedale di Lecco divenne un riferimento per l’applicazione del metodo Ilizarov sia a livello nazionale che internazionale. Lo stesso Ilizarov operò a Lecco una bambina affetta da una grave patologia di un arto inferiore: fu il primo intervento in Italia.

Venne fondata l’ASAMI, Associazione Studio e Applicazione Metodo di Ilizarov. I fondatori furono Roberto Cattaneo, presidente, Angelo Villa, Maurizio Catagni e Livio Tentori di Lecco, Antonio Bianchi-Maiocchi di Novara, Giambattista Benedetti e Luciano Ghezzi di Bergamo, Renato Bombelli di Busto Arsizio. Carlo Mauri venne nominato socio onorario. Seguirono alcuni scambi scientifici tra Ilizarov e il gruppo di ortopedici italiani che si recarono a Kurgan in più riprese.

Carlo Mauri fu felice di aver portato a Lecco il metodo Ilizarov, il compito che si era prefissato.

Morì due anni dopo, il 31 maggio del 1982, per un infarto del miocardio che lo colpì mentre stava scalando sulle montagne di casa.

 

Bibliografia:

Mostra “Carlo Mauri una vita in salita”, Palazzo delle Paure, Lecco

“Quando il rischio è vita”, Carlo Mauri, Casa Editrice Corbaccio, 2015

Giornale Italiano di Ortopedia e Traumatologia, 2018;44: 64-74

 

 

8.08.2022


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