Caduti dal cielo delle Orobie

Degli aerei precipitati durante la Seconda Guerra Mondiale se ne è perso il conto. O meglio nessuno lo ha mai avuto. Tre episodi per ricordare un frammento della tragedia

 

Serbo molto vivido il ricordo di quel giorno in cui mio padre mi aveva accompagnato per vedere i resti di un aereo alleato precipitato in circostanze non chiare al passo di Portula in Alta Valle Brembana. Trascorsa la notte al rifugio Fratelli Calvi, il giorno seguente avevamo raggiunto il luogo del disastro. Era verso la fine degli anni ’50 e l’aereo si era schiantato la notte tra il 13 ed il 14 luglio del 1944. Il terreno era cosparso di pezzi di lamiera e di altri residuati, tra i quali parti di serbatoio. Nella “Breve storia della brigata Cacciatori delle Alpi” il comandante Mino Bartoli racconta che subito dopo l’incidente era salita da Carona una squadra guidata dal giovanissimo partigiano Sandro Mascheroni, più o meno suo coetaneo. La formazione partigiana era piuttosto consistente e stazionava a Carona. Vennero recuperate quattro mitraglie. A bordo dell’aereo si trovavano cinque canadesi che morirono nell’impatto. Dell’episodio non si conosce molto, tranne l’ora e il luogo del decollo: le 20,18 da Foggia. L’aereo era un Vickers Wellington, 7 Liberator, bombardiere medio, bimotore, del 2 Wing SAAF, della Royal Air Force (RAF) del 205 Group, HE 293D del 142 Squadron. Si dice che abbia partecipato a un bombardamento nella zona di Milano (Lambrate, Limito, Segrate, Redecesio?) e che, probabilmente a causa dei danni subiti dal fuoco della contraerea e per il maltempo, abbia perso la rotta e sia finito con lo schiantarsi sulle pendici del monte Madonnino. Secondo il racconto di Agostino Alberti alcuni frammenti del velivolo vennero recuperati e identificati da esperti inglesi di archeologia aeronautica i quali li riconobbero come parti della struttura geodetica, caratteristica del bombardiere Vickers Wellington.

Qualcuno sostiene che l’aereo fosse in missione per degli aviolanci. Queste operazioni in zone di montagna erano piuttosto rischiose a causa del sorvolo a bassa quota, a volte delle cattive condizioni atmosferiche delle nostre valli soggette a forte turbolenza, della scarsa conoscenza dell’orografia dei piloti, del forte sovraccarico e della necessità di fare tutto in velocità per evitare gli attacchi della contraerea nemica.

Un altro episodio, molto più documentato, avvenne il 4 ottobre del 1944. In questa data un bombardiere americano si schiantò su una delle cime del monte Menna, sopra l’abitato di Zorzone in Valle Brembana, al cospetto delle cime dell’Arera, del monte Grem e dell’Alben. Si trattava di un B-24 Liberator, un pesante quadrimotore ad ala medio-alta, fortezza volante, che era decollato dall’aeroporto di Brindisi per effettuare una missione segreta nel nord dell’Italia. Era carico di materiale da paracadutare. In una zona chiamata “Crosley”, una radura situata sopra l’abitato di Monasterolo del Castello, vicino al lago di Endine, avrebbe dovuto paracadutare tre agenti segreti italiani dell’OSS (Office of Strategic Services) oltre le linee nemiche. A bordo si trovavano dieci aviatori americani che facevano parte dell’equipaggio e i tre italiani. Il bombardiere era soprannominato “Lady Irene”. I partigiani erano stati avvisati del suo imminente arrivo tramite un messaggio codificato di Radio Londra. Sorvolato l’Adriatico in direzione nord e l’isoletta di Sveti Andrija, il bombardiere era, poi, entrato in territorio italiano. I partigiani a terra aspettavano l’aviolancio che avrebbe dovuto paracadutare dodici contenitori metallici e otto pacchi contenenti armi, munizioni, alimenti, esplosivi al plastico, materiale sanitario e denaro. La zona del lancio era stata illuminata con numerose fiaccole. Per motivi di sicurezza l’aereo doveva rispettare il silenzio radio nel corso della missione, salvo motivi di emergenza.

A causa delle cattive condizioni atmosferiche, dovute alla presenza di nubi, l’aereo mancò la zona di Monasterolo del Castello, dove avrebbe dovuto paracadutare i tre italiani. Dopo aver oltrepassato il luogo designato e continuato il volo per circa 25 chilometri, avrebbe dovuto effettuare un aviolancio sul monte di Zambla, ma si schiantò poco lontano dalla cresta del Monte Menna a 2250 metri di altitudine, in località Pezzadello. Viste le difficoltà incontrate il pilota ordinò di richiudere i portelloni per riprendere quota, annullando il lancio. L’aereo non riuscì ad evitare la cima del monte Menna per soli due o tre metri. Il rumore del terribile impatto venne udito in tutta la vallata di Oltre il Colle. La montagna venne avvolta dal fuoco e le esplosioni continuarono per tutta la notte, visibili dai paesi circostanti. Varie le ipotesi del disastro. Nel racconto di Massimo Maurizio si legge che l’aereo possa essere stato colpito e danneggiato dalla contraerea nemica incontrata lungo la rotta. L’ipotesi è confortata dalla testimonianza di alcuni abitanti della valle che videro l’aereo già in fiamme prima dello schianto contro la montagna. Un’altra tesi è quella della scarsa visibilità dovuta alle cattive condizioni meteo. Tutti i membri dell’equipaggio e i tre agenti segreti italiani a bordo dell’aereo morirono. Alcuni abitanti della zona raggiunsero il luogo dell’incidente. Don Bartolomeo Imbeni, parroco di Zorzone, salì sul Menna accompagnato da due partigiani per dare sepoltura ai resti degli aviatori americani e dei tre italiani. Le salme vi rimasero per alcuni anni e, poi, nel 1947 il governo degli Stati Uniti le fece recuperare e trasportare nel National Cemetery  di St. Louis. Don Imbeni si fece dare l’indirizzo dei parenti del pilota americano Charles Robert Sloan e inviò loro in una busta una cartolina di Zorzone con ben in evidenza il monte Menna e una stella alpina raccolta nel luogo della sepoltura. Degli americani si conoscevano i nomi, la provenienza, la dinamica della rotta, l’orario e la data dell’incidente, come risulta dal MACR (Missing Air Crew Report). Dei tre italiani non si conobbe nulla, nemmeno nome e cognome. Non venne aperta alcuna inchiesta dall’USAAF sull’incidente trattandosi di missing in war action. Anche la dinamica dell’incidente non venne mai indagata nei dettagli.

Nell’archivio fotografico del mio prozio Guido Ferrari ho trovato alcune foto da lui scattate sul luogo del disastro. Una delle immagini ritrae una corona di fiori deposta sulla cima del monte Menna.

Il 14 agosto 2016 è stato inaugurato a Zorzone un Memoriale dedicato alle vittime della sciagura aerea. Nel piccolo museo sono conservati numerosi reperti del velivolo ed alcune immagini. Alcune parti dell’aereo vennero trasformate dagli abitanti del luogo in oggetti di uso quotidiano o utilizzati per la costruzione di abitazioni. Nel corso degli anni si sono stabiliti contatti amichevoli con i famigliari delle vittime.

Poco conosciuta è la storia di un bombardiere tedesco Junkers modello 188, versione D-2, bimotore, caduto, nella tarda serata del 23 dicembre del 1944, tra Gerosa e Peghera, in località Rusticana, tra le valli Brembilla e Taleggio a circa 1100 metri di quota. Alessio Rota nel corso di tre anni ha effettuato delle ricerche sull’accaduto, dimenticato da molti. L’aereo era partito intorno alle 20 dal campo di aviazione di Orio al Serio per effettuare una missione di ricognizione aerea segreta. Su tutto il nord Italia imperversava il maltempo. Cinque erano gli aviatori tedeschi a bordo. Decollato dalla pista orientata a ovest dell’aeroporto, il bombardiere si era diretto verso nord, verso le Alpi. Nella zona di Gerosa la quiete della notte venne rotta da un enorme fragore, dovuto all’aereo precipitato. Il terreno era quella notte parzialmente coperto di neve e sulla zona gravava una leggera nebbia. Alcuni abitanti della valle decisero di raggiungere immediatamente il luogo della sciagura. Trovarono resti umani sparsi sul terreno tra i rottami del bombardiere. Ciò che rimase delle vittime venne trasportato avvolto in coperte e sacchi e ricomposto presso un’autorimessa situata a Gerosa, accanto alla chiesa parrocchiale. Don Andrea Pesenti, detto “il Rosso”, parroco del paese, ha benedetto le spoglie degli aviatori, che vennero recuperati, pochi giorni dopo, da un camion militare.

Per riportare a valle i resti del bombardiere gli abitanti della zona installarono una teleferica simile a quelle usate dai boscaioli per il trasporto del legname; successivamente con le lamiere del velivolo vennero fabbricati coperchi per pentole. Da uno pneumatico furono ricavate suole per scarpe. I paracadute vennero utilizzati per ricavare filo per cucire e vestiti. I ragazzi di Peghera e di Gerosa fecero nascere un vero e proprio commercio di proiettili provenienti dalle due mitragliatrici e dal cannone di bordo, collezionandoli e scambiandoli tra di loro come le figurine dei calciatori.

Ritornando alla ricostruzione del fatto, poco si conosce. Molti documenti vennero distrutti dai tedeschi prima della resa. Il bombardiere apparteneva alla 4^ Squadriglia, mentre l’equipaggio, composto da cinque uomini, faceva parte della 6^ Squadriglia del 122° Gruppo Ricognizioni a lungo raggio. I resti dei cinque aviatori tedeschi riposano ora presso il cimitero Militare Tedesco di Costemano sul lago di Garda. I genitori e la fidanzata di uno degli aviatori arrivarono a Gerosa intorno al 1946  per visitare il luogo dello schianto. Grazie ad alcuni documenti relativi a intercettazioni degli Alleati pare che l’aereo fosse diretto al porto di Ajaccio, in Corsica.  Era un ricognitore notturno marittimo, dotato di un radar “Lorenz FuG 200” in grado di rilevare unità navali fino a 120 chilometri di distanza. Pilota e navigatore non optarono per una via diretta, per ovvie ragioni di sicurezza, per evitare gli attacchi dei caccia alleati. Scelsero, perciò, di volare lungo l’arco alpino, molto più sicuro perché controllato dai nazifascisti, seguendo un radiofaro situato nel comune di Premana in Valsassina.

 Le cause dell’incidente risultano incerte dal momento che gli aerei di quell’epoca non erano dotati di scatole nere. L’abbattimento da parte di batterie antiaeree o da aerei alleati viene scartata dal momento che il territorio sorvolato dall’aereo era sotto il controllo fascista. Non esistono indizi circa un eventuale errore umano. I ricognitori erano soliti volare a bassa quota ed erano dotati di altimetro barometrico e di un radioaltimetro (LorenzFuG 101). Secondo i testimoni nella zona non pare che la visibilità fosse molto scarsa. Le montagne erano imbiancate dalla neve caduta il giorno prima e, quindi, ben visibili anche di notte. Le ipotesi più probabili sono quelle del guasto tecnico e del sabotaggio. Alcuni abitanti del luogo riferirono di aver udito un rumore strano dei motori e di aver visto l’aereo in fiamme. Sul terreno vennero ritrovati pezzi di alluminio fuso a forma di goccia. L’industria e la forza militare tedesche erano in quel periodo piuttosto indebolite, con conseguente diminuzione della qualità dei mezzi e dei pezzi di ricambio per gli aerei. Venivano, spesso, eseguite riparazioni e manutenzioni di fortuna. La perdita di entrambi i motori a quei tempi era un evento alquanto improbabile, mentre si è autorizzati a ritenere che la causa avrebbe potuto essere la scarsa qualità del carburante. Secondo alcune testimonianze l’aeroporto di Orio al Serio sarebbe stato mira con successo, da parte di forze inglesi speciali e partigiani, di sabotaggi, primo tra tutti l’inquinamento del carburante.

 

Bibliografia:

Quaderni Brembani 6, 13 e 14 del Centro Storico Culturale Valle Brembana “Felice Riceputi” di San Pellegrino Terme (Bg)