Andare in quota durante la pandemia

Lo scorso maggio si è svolto un incontro dal titolo “La medicina di montagna al tempo del Covid”. Tanti i relatori e gli argomenti affrontati.

 

Giancelso Agazzi

 

Il 6 maggio 2022 presso l’auditorium del Centro Servizi Sanitari della provincia di Trento si è svolto il convegno intitolato “La medicina di montagna al tempo del Covid”. L’evento è stato organizzato dalla Società Italiana di Igiene, Medicina Preventiva e Sanità Pubblica, in collaborazione con la Società Italiana di Medicina di Montagna e la Società di Medicina dei Viaggi e delle Migrazioni. Per la prima volta le tre società scientifiche si sono incontrate per confrontarsi in modo interdisciplinare a proposito delle varie problematiche legate alla Covid-19 in ambiente montano nel momento della ripartenza.

La pandemia ha causato cambiamenti radicali nella nostra vita quotidiana dal punto di vista sanitario, economico, sociale, ma ha prodotto mutamenti anche nelle attività del mondo della montagna.

Primo relatore è stato Luigi Bertinato, coordinatore della struttura Clinical Governance, responsabile della segreteria scientifica dell’Istituto Superiore di Sanità di Roma, che ha affrontato l’argomento “Turismo di montagna nell’era Covid: come conciliare sicurezza e turismo”. La pandemia provocata dal Sars-COV-2 ha evidenziato il valore della salute come prerequisito fondamentale per la crescita economica e il benessere di un Paese e ci ha ricordato l’importanza della sanità pubblica. Alla luce di ciò una riflessione importante merita il tema del “turismo in sicurezza” in relazione all’infezione causata dal Coronavirus. Tra poche evidenze scientifiche e molte incertezze si sono dovute prendere molte decisioni. L’Istituto Superiore di Sanità ha dovuto occuparsi del monitoraggio settimanale degli indicatori, cercando di dare risposte alla politica. Per fortuna la vaccinazione e il lockdownhanno cambiato il corso della pandemia. L’Italia è stato il primo Paese a chiudere completamente e, probabilmente, anche a istituire un Comitato Tecnico-Scientifico dedicato all’emergenza. Si sono creati appositi percorsi Covid-19 per evitare gli assembramenti, cercando di tutelare anche gli ospiti e i lavoratori delle zone di montagna. Sono stati creati dei criteri guida per il controllo della Covid-19. È stato fatto un lavoro con l’INAIL allo scopo di limitare la propagazione del virus, attraverso la classificazione dei rischi a cui erano esposti i lavoratori, primo tra tutti l’impossibilità di rispettare il distanziamento. Il relatore ha citato il caso di Ischgl, un villaggio delle Alpi austriache, dove la Covid-19 è stata esportata dagli sciatori contagiati in 45 nazioni, sottolineando che simili eventualità sono state successivamente almeno in parte contenute grazie a indicazioni relative all’igiene degli alimenti nell’ambito della ristorazione. Si sono implementate le misure di prevenzione nei trasporti, imponendo l’uso della mascherina. È stato adottato un approccio integrato, dal momento che nessuna misura può ridurre da sola la trasmissione della malattia. Su tutto il territorio nazionale si è cercato di diffondere una cultura della sicurezza Covid-19 in montagna. Si è tentato di bilanciare le strategie di sanità pubblica con le esigenze del turismo. Sono stati messi a punto criteri guida delle misure di gestione nella collaborazione tra sanità e turismo: rischio di aggregazione, prossimità delle persone, uso della mascherina, igiene delle mani, adeguata aereazione e igienizzazione degli ambienti, efficaci informazione e comunicazione, capacità di promuovere, monitorare e controllare l’adozione delle regole. Si è stabilita una relazione tra scienza e presa di decisione politica, definendo punti di incontro. La sanità pubblica ha avuto un ruolo di mediazione. Si sono utilizzate le evidenze scientifiche basate su dati e pubblicazioni indicizzate. Le incertezze hanno fatto parte del dibattito scientifico e si è cercato di lavorare su scenari e non su opinioni.

L’elevata copertura vaccinale in tutte le fasce di età, anche quella tra 5 e 11 anni, rappresentano strumenti necessari a mitigare l’impatto, soprattutto clinico nell’epidemia. È di fondamentale importanza rendere permanente la collaborazione tra sanità e turismo a tutti i livelli, sul modello delle unità di crisi, per Covid-19 e sicurezza sulle piste di sci. Il settore turistico deve continuare a utilizzare tutte le azioni indicate dalla sanità per la ripresa in sicurezza, comprese le “bolle e i percorsi” appresi dal settore agonistico e farne memoria per il futuro. Il settore sanitario deve mettere a disposizione le tecnologie e le competenze per tracciamento e diagnostica in presenza e a distanza per Covid-19 e non dismettere i modelli organizzativi utilizzati. Occorre recuperare/mantenere la stima e la fiducia reciproca di settore (sanità e turismo) e la sintonia con i decisori politici per tutte le emergenze sanitarie nazionali ed internazionali.

I cambiamenti climatici prenderanno il posto della pandemia come la più importante preoccupazione della scienza. Colui che non prevede le cose lontane… si espone ad infelicità ravvicinate (Confucio).

È seguito l’intervento di Sandro Cinquetti, direttore del Dipartimento di Prevenzione dell’Azienda ULSS I Dolomiti, che ha parlato di “Sanità pubblica nelle zone montane: quali prospettive”. La sanità pubblica rappresenta uno sforzo organizzato della società volto a migliorare e prolungare la qualità della vita di un’intera popolazione (mantenere sani i sani…). La salute non è semplicemente l’assenza di malattia, ma uno stato di completo benessere fisico, psichico e sociale (Organizzazione Mondiale della Sanità, 1948). La sanità pubblica dopo la Covid-19 deve “tornare” al PNP (Piano Nazionale della Prevenzione). Il piano si articola in sei macro obiettivi:

·      Malattie croniche non trasmissibili

·       Dipendenze e problemi correlati

·      Incidenti stradali e domestici

·      Infortuni e incidenti sul lavoro

·      Malattie professionali

·      Ambiente, clima e salute e malattie infettive prioritarie

La Sanità Pubblica è fondamentale nei territori estesi con poca concentrazione dei residenti. È importante il rapporto con i medici di base (medicina di famiglia) e con i reparti di malattie infettive. Un eccesso di mortalità dovuta alla Covid-19 avrebbe potuto essere evitato. Occorre favorire la crescita economica dei territori montani (Homo sine pecunia imago mortis). Il reddito disponibile è il grande determinante per la mortalità (aspettativa di vita). La montagna costituisce un rischio (melanoma, suicidi). Nella provincia di Belluno si registra il più alto tasso di incidenza di melanoma del mondo. Belluno è in testa nei programmi di sanità pubblica (screening). Serve affrontare le linee di sviluppo della prevenzione di grande impegno, andando incontro ai cittadini. Un grande investimento (oltre 20.000 tamponi e il tracciamento dei contati) ha salvato Cortina in occasione delle gare di coppa del mondo 2022.

È seguita la presentazione di Antonella Fioravanti, membro del Comitato Scientifico delle Terme di Levico, dal titolo “Termalismo e salute”. La salute dell’uomo dipende da determinanti modificabili e determinanti non modificabili. Promuovere la salute non significa più semplicemente il superamento o la cura di una situazione patologica, ma, prima ancora, la prevenzione e la promozione del benessere inteso come “bene-essere”, ovvero come il piacere di stare bene. L’intervento terapeutico non può e non deve limitarsi al semplice processo di guarigione della malattia (to cure), ma deve essere finalizzato al “prendersi cura” (to care). La medicina termale promuove la salute e il benessere ed è stata inserita dall’OMS nell’ambito della medicina tradizionale, in seno alle terapie coadiuvanti (medicina di ausilio). Questa disciplina costituisce uno dei più comuni trattamenti complementari, utilizzati in diversi Paesi europei e non solo con scopi preventivi, terapeutici e riabilitativi, per varie patologie a carattere cronico-degenerativo o recidivante. I centri termali presenti in Italia sono oltre 326, distribuiti in 20 regioni e 180 comuni, e sono una vera eccellenza, e accolgono 3,9 milioni di pazienti ogni anno (88% italiani). La pluralità di acque annoverate nelle terme italiane e autorizzate dal Ministero della Salute consente di offrire proprietà di impiego terapeutico in varie branche specialistiche. Attualmente esiste un elenco delle patologie che possono trarre beneficio dalle cure termali, incluse nei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA). La ricerca scientifica sta crescendo nell’ambito della medicina termale con la pubblicazione di studi pre-clinici e clinici su riviste nazionali e internazionali. Le recenti evidenze scientifiche conferiscono una nuova dignità e credibilità ad un’antica pratica terapeutica e ne estendono le indicazioni a patologie ad elevato impatto epidemiologico e sociale. La certificazione “scientifica” rappresenta lo strumento in grado di offrire nuovi sbocchi ed aperture del mercato e, quindi, un volano per l’economia del settore. Con la terapia termale si possono curare stress, ansia, depressione, disturbi del sonno, esiti di patologie oncologiche, e si possono affrontare riabilitazioni patologie muscolo-scheletriche, post-intervento chirurgico, post-Covid-19. È previsto un percorso terapeutico riabilitativo del paziente obeso.

Carlo Vignati, cardiologo del Dipartimento di Cardiologia Critica e Riabilitativa, Laboratorio di Fisiopatologia Cardiorespiratoria del Centro Cardiologico Monzino RCCS di Milano, ha parlato di “Adattamento cardiorespiratorio alla quota”. L’alta quota è un problema di tutti i giorni. Infatti, la pressurizzazione delle cabine degli aerei di linea è di 2600 metri nel B737, 1600 metri sul B747, 2000 metri sull’A320, e 300 metri sul Concorde. La frequenza e portata cardiache aumentano con la quota. Di conseguenza aumentano il lavoro cardiaco e la richiesta di ossigeno. Il consumo di ossigeno alla soglia aerobica (massimo consumo di ossigeno) si riduce fino al 15-20% nello scompenso cardiaco cronico. La capacità di esercizio si riduce in quota sia nei soggetti sani che nei soggetti affetti da scompenso cardiaco. Il carvediolo, un beta-bloccante non selettivo, riduce l’iperventilazione indotta dall’esercizio (risposta ventilatoria all’esercizio più bassa): un beneficio in condizioni di normossia e un danno in condizioni di ipossia. Si registra una ridotta sensibilità chemorecetttoriale con l’assunzione del carvediolo. È da preferire il nebivololo. Esistono delle raccomandazioni messe a punto a livello mondiale da un gruppo di esperti per i pazienti affetti da cardiopatie che vanno in montagna.

Michele Samaja del Dipartimento di Scienze della Salute dell’Ospedale San Paolo di Milano, ha parlato di “Ruolo dell’ossigeno e della mancanza di ossigeno nella medicina di montagna”. Il massimo consumo di ossigeno si riduce in altitudine.

Gli Sherpa, che vivono in quota da migliaia di anni e che, quindi, hanno potuto adattarsi alle condizioni di ipossia, manifestano una minore risposta allo stimolo ipossico. Lo stesso adattamento non ha potuto verificarsi per le popolazioni andine, residenti in altitudine da circa 500 anni. A parità di quota, la pressione barometrica è inferiore ai poli. In Antartide la percentuale di ossigeno è minore rispetto al resto della terra. Al Concordia Dome, a 3233 metri, l’effetto prodotto sull’apparato respiratorio è pari a quello che si osserva a 3800 metri.

Tra il 1921 e il 2017, 4833 persone hanno raggiunto la vetta dell’Everest, il 2,5% senza l’utilizzo di ossigeno supplementare. Si sono verificati 288 incidenti fatali (6,5%). Nel 30 a.C. Tseen Han Shoo, nel corso di un viaggio lungo la via della seta in Hindu Kush, ha descritto gli effetti dell’ipossia (mal di testa, febbre, vomito). Il relatore ha ricordato gli studi sull’ipossia effettuti dal fisiologo Angelo Mosso. L’adattamento all’ipossia si realizza attraverso una risposta ventilatoria, una risposta eritropoietica e una risposta molecolare. Circa 140 milioni di persone (2% della popolazione umana) vivono permanentemente ad altitudini superiori a 2500 metri: gli Aymara e i Quechua nelle Ande, gli Sherpa e i Tibetani nell’Asia meridionale e gli Etiopi in Africa orientale. Costituiscono un laboratorio naturale che consente di rispondere a domande intriganti sugli adattamenti sociali, culturali e biologici, un esempio di selezione naturale in azione. A Auchanquilqua, in Cile, si trova la miniera più alta del mondo (5950 metri) che, allo stesso tempo, rappresenta l’insediamento umano permanente alla maggiore altitudine. Le popolazioni di questo luogo sono affette da policitemia (ematocrito >64%), ipossiemia e cianosi (SaO2 =83%), danni al sistema nervoso (emorragie retiniche) e alto rischio di edema cerebrale.

La malattia cronica d’alta quota (Monge disease) è caratterizzata da policitemia (dolori alle ossa, sovrastimolazione del midollo), difficoltà a livello della circolazione cerebrale, ipoventilazione (bassa performance fisica, torace largo), alta incidenza nelle popolazioni andine (quasi sconosciuta nelle popolazioni asiatiche). La sintomatologia è reversibile, ergo, tornando sul livello del mare i vari disturbi spariscono. L’Hypoxia-inducible Factor-1-alfa (HIF-alfa) è un fattore translazionale, scoperto nel 1995 da Gregg Semenza, pediatra e professore di genetica medica alla John Hopkins School of Medicine. Si trova in tutte le cellule dei mammiferi e controlla l’espressione del 2,6% del genoma umano. Semenza ha ricevuto il premio Nobel nel 2019 per gli studi effettuati sull’adattamento delle cellule alla minore disponibilità di ossigeno.

Nel corso dello studio “Genoma-wide”, realizzato su 3008 tibetani e 7287 non tibetani, sono stati rilevati segnali di adattamento all’alta quota in nove geni.

Samaja ha affermato che gli esseri umani dimostrano scarsa capacità di adattamento dopo dieci mesi trascorsi a 3800 metri.

I soggetti colpiti dall’infezione Covid-19 possono manifestare segni di ipossia (come a 4000 metri di quota) e sviluppare una forma di anemia. L’epcidina è più alta nel paziente Covid-19 (stress ossidativo, infiammazione) e impedisce l’assorbimento del ferro.

In conclusione la mancanza di ossigeno è la principale causa di disfunzione in alta quota. Le risposte all’ipossia (alcalosi respiratoria, eritropoiesi, risposte molecolari) segnalano la presenza di fenomeni di cattivo adattamento (adattarsi forse si può, ma richiede migliaia di anni e un numero imprecisabile di vite umana).

Va detto che alcune malattie polmonari che causano ipossia inducono meccanismi di adattamento diversi da quelli provocati dall’ipossia legata all’alta quota (una finestra sull’evoluzione darwiniana).

Giacomo Strapazzon, direttore dell’Istituto di Medicina di Emergenza di Montagna dell’Eurac di Bolzano, ha parlato di “Aggiornamenti in tema di ipotermia e travolto da valanga”. Il relatore ha illustrato le linee guida messe a punto dall’European Resuscitation Council 2021 per i casi di arresto cardiaco che avvengono in circostanze particolari. Si parla di ipotermia accidentale quando la temperatura corporea scende al di sotto dei 35°C. In situazioni di ipotermia il consumo di ossigeno si riduce del 6% per ogni grado di temperatura in meno. Si verificano una maggiore resistenza e tolleranza al basso stato di afflusso di ossigeno alle cellule.

La classificazione svizzera dell’ipotermia prevede 4 stadi:

·      Stadio I, paziente cosciente e presenza di brivido (35-32°C)

·       Stadio II alterazione dello stato di coscienza, il brivido può essere o non essere presente (32-28°C)

·       Stadio III stato di incoscienza e presenza di segni vitali (<28°C)

·       Stadio IV stato di morte apparente, assenza di segni vitali (temperatura variabile)

 La misurazione della temperatura corporea nei soggetti ipotermici sul terreno può essere effttuata a livello esofageo, vescicale, rettale, o epitimpanico. Nel paziente ipotermico non si deve ritardare l’intubazione endotracheale quando è indicata. Vanno controllati i segni vitali per oltre un minuto: palpare un’arteria centrale e valutare il ritmo cardiaco e, qualora sia possibile, effettuare un tracciato elettrocardiografico. Può servire l’utilizzo degli ultrasuoni per valutare l’attività cardiaca o il flusso sanguigno periferico. In caso di dubbio è bene incominciare la rianimazione cardio-respiratoria. L’ipotermia può provocare un arresto cardiaco o anche rigidità della parete toracica, rendendo difficili la ventilazione e le compressioni toraciche. Può essere utile l’impiego dei device (massaggiatori cardiaci automatici) che comprimono in modo meccanico e automatico la gabbia toracica. La gestione del paziente ipotermico va strutturata. In caso di ipotermia, non sempre i farmaci cardioattivi risultano efficaci sul cuore in condizioni critiche. È ragionevole non usare l’adrenalina. Una volta raggiunti i 30°C gli intervalli tra le varie somministrazioni di farmaci vanno raddoppiati rispetto ad una situazione di normotermia in un paziente cardiopatico. Si può ritardare la rianimazione cardio-respiratoria o ricorrere alla rianimazione cardio-respiratoria intermittente qualora non si possa praticare la CPR a causa delle difficoltà incontrate durante le operazioni di soccorso. Alcuni algoritmi permettono di gestire e di stadiare il paziente ipotermico sul terreno. Lo score HOPE è uno dei più utilizzati per valutare la prognosi di un paziente ipotermico (https://www.urg-admin.ch/hope/). Uno studio effettuato su 2049 travolti da valanga ha evidenziato che il 21,8% delle vittime è stato estratto morto. Per quanto riguarda la curva di sopravvivenza dei travolti da valanga, la percentuale di chi si salva tra i completamente sepolti è del 74%, se i compagni intervengono prima dell’arrivo dell’elisoccorso, mentre scende al 19% quando si aspetta l’intervento dei soccorsi organizzati (decesso tempo-dipendente). Se ci si trova di fronte ad un arresto cardiaco con un seppellimento uguale o inferiore a 60 minuti con temperatura corporea uguale o inferiore a 30°C con arresto cardiaco non ipotermico, si devono effettuare la rianimazione cardio-respiratoria e l’ALS per 20 minuti. In caso di arresto cardiaco e di seppellimento superiore a 60 minuti con le vie aeree libere (presenza di un air pocket) si deve praticare la rianimazione cardio-respiratoria continua o intermittente e si deve trasportare il travolto presso un centro ECLS. Se il tracciato elettrocardiografico rivela un’asistolia e se il seppellimento dura da oltre 60 minuti e le vie aeree sono bloccate, purtroppo non resta che constatare il decesso. Si deve tenere conto della Avalanche Resuscitation checklist messa a punto dalla commissione medica della Cisa-Ikar.

Lorenza Pratali, presidente della Società Italiana di Medicina di Montagna, ha parlato di “Aggiornamenti in tema di AMS, HAPE, HACE”. I primi studi sulla fisiologia dell’alta quota sono stati condotti a 4560 metri alla capanna regina Margherita da Angelo Mosso. Anche Thomas Holmes Ravenhill (1881-1952), capitano medico del Royal Army Medical Corps, di stanza nelle Ande, nel 1913 descrisse gli effetti dell’ipossia causata dall’alta quota (puna).  La risposta all’alta quota (primi 2 giorni di permanenza a 4500 metri) varia molto da individuo a individuo ed è dovuta alla variabilità del sistema simpatico. Le malattie acute d’alta quota sono: male acuto di montagna (AMS), edemi periferici, edema cerebrale (HACE), edema polmonare (HAPE), emorragie retiniche, disturbi neurologici e malattia di Monge. Fondamentale è lo studio della fisiopatologia per capire questo tipo di disturbo. La malattia acuta d’alta quota è una sindrome caratterizzata da sintomi non specifici, pertanto soggettivi. Tra questi: cefalea, nausea, vomito, diarrea, eccessiva fatica. Oltre a ciò compaiono segni quali edemi periferici (orbite, mani, piedi), cianosi delle labbra, alterato stato mentale ed incapacità a camminare in linea retta (atassia).  Colpisce persone non acclimatate e insorge in genere oltre i 2500 metri di quota. I sintomi compaiono di solito dopo 6-10 ore.  Può complicarsi in edema cerebrale d’alta quota. Chinese Headache Mountain 30 BC (Tseen Hun Shon Book 96): “…Again passing the Great Headache Mountains, the Little Headache Mountain, the Red Lands and the Fever Slope, men’s bodies became feverish, they lose color and are attacked with hedache and vomiting” (passando ancora le Great Headache Mountains, la Little Headache Mountain e la Fever Slope gli uomini diventano febbricitanti, pallidi e hanno attacchi di mal di testa e di vomito). Tra I fattori predisponenti: residenza a bassa quota e assenza di acclimatazione, suscettibilità individuale, pregressi episodi di male acuto di alta quota, età, eccellente condizione fisica, ridotta risposta ventilatoria all’ipossia, obesità, russatori, emicrania, interventi o radioterapia sul collo. Tra i fattori favorenti: velocità di ascesa, freddo, esercizio intenso e infezioni delle vie aeree. In genere scarsa è la consapevolezza circa le malattie d’alta quota.

Un’ autovalutazione sul campo dell’AMS può essere effettuata con il Lake Louise Score(valutazione dei sintomi almeno dopo sei ore). Uno score superiore a 3 sta ad indicare la comparsa dell’AMS.

 Esistono tre differenti gradi di AMS:

·      Lieve: un po’ di fastidio, non limitazione dell’attività, buona risposta ai sintomatici

·       Moderato: discretamente fastidioso, limitazione delle attività quotidiane, risposta ai farmaci, ma successivo ritorno

·       Severo: impedisce le attività, con scarsa risposta ai farmaci

 In caso di AMS leggero non si deve salire ulteriormente, cercando di riposare. Va mantenuta una buona idratazione (>3 litri al giorno), evitando sforzi e riparandosi dal freddo. Si consiglia di dormire con il tronco leggermente sollevato. Per quanto riguarda i farmaci si possono utilizzare acido acetilsalicilico o paracetamolo, ibuprofene, farmaci contro nausea e vomito. Opportuna, inoltre, la somministrazione di acetazolamide non solo come terapia, ma anche come profilassi. In alternativa si può impiegare il desametasone, che, però, non è indicato nei bambini. Si devono valutare la somministrazione di ossigeno e l’uso del sacco iperbarico. Si deve scendere per oltre 500 metri o comunque all’ultima quota ove il soggetto era asintomatico. La discesa deve avvenire il più presto possibile, tenendo conto delle difficoltà tecniche e della eventuale presenza di risalite che potrebbero peggiorare il quadro clinico. Il soggetto non deve portare pesi.

L’edema cerebrale d’alta quota (HACE) insorge nel periodo di acclimatamento da 3500 a 5000 metri o in altissima quota intorno ai 7000 metri. Ha una prevalenza di 0,5-1% tra 4200-5000 metri. Tra i fattori favorenti: la mancanza di acclimatamento e lo stato di AMS. Il quadro di ipertensione endocranica determina mal di testa resistente a trattamento analgesico, vomito a getto, atassia alla marcia, cambio di umore, diplopia, delirio e/o allucinazioni. L’evoluzione: guarigione rapida se si scende di quota, oppure perdita di conoscenza seguita da decesso (nel 60% dei casi). Una diagnosi strumentale è rappresentata dall’ecografia del nervo ottico.

Il trattamento prevede la discesa di 500-1000 metri, l’uso del cassone iperbarico, la somministrazione di ossigeno (2-4 litri/ minuto). In relazione ai farmaci è consigliato l’uso del desametasone, mentre in caso di nuova ascesa è indicata la somministrazione di acetazolamide.

L’edema polmonare acuto d’alta quota (HAPE) si manifesta oltre i 2500 metri entro 1-5 giorni dall’arrivo. Rappresenta la principale causa di decesso in alta quota. La mortalità è del 44% se non ci si affretta a scendere o se non si ricorre alle cure idonee. Fattori favorenti: mancanza di acclimatamento, esercizio intenso, infezioni polmonari acute e predisposizione personale. Dagli studi effettuati è emerso che presenta una prevalenza inferiore allo 0,2% nei frequentatori della montagna per soggiorni uguali o superiori a 3 giorni. Va detto, però, che tra i trekkers in Nepal a 4200 metri di quota e tra gli alpinisti che, in 2-4 giorni salgono alla capanna regina Margherita (4559 metri) tale prevalenza raggiunge il 4%. Inoltre, aumenta ulteriormente (6%) se la salita avviene in 24 ore, o se esiste già una storia di HAPE. Spesso si associa a AMS. Sintomi della fase di insorgenza: dispnea a riposo e tosse secca. Nella fase di stabilizzazione: catarro denso e roseo, rantoli polmonari e cianosi. Per la profilassi dell’HAPE si somministrano nifedipina a rilascio prolungato, tadalafil, desametasone e salmeterolo. Nell’HAPE da rientro: acetazolamide. Il trattamento prevede: nifedipina a rilascio prolungato, tadalafil, sildenafil, desametasone. Non indicati, in quanto pericolosi: digitalici, diuretici e morfinici.

Profilassi per le malattie acute di montagna:

·      Salire lentamente, evitando sforzi intensi, mantenere una buona idratazione

·      Oltre i 3000 metri vanno pianificate le quote di pernottamento entro i 600 metri di dislivello. Se non è possibile, pernottare per due notti alla stessa quota

·      Se si programma di trascorrere la notte oltre i 3000 metri, evitare il più possibile l’uso di mezzi di risalita meccanici

·      Non bere alcolici e non assumere sonniferi, soprattutto benzodiazepine

·      Se si deve assolutamente raggiungere una quota oltre i 3000 metri con aerei/elicotteri o mezzi meccanici, a partire dalla sera precedente la partenza assumere acetazolamide e/o desametasone.

·      Se si programma di trascorrere la notte oltre i 3000 metri in presenza di anamnesi positiva per HAPE assumere nifedipina.

 

Antonio Prestini, dirigente medico Igiene e Sanità Pubblica APSS di Trento e guida alpina, ha presentato una relazione dal titolo “Educare alla montagna: tra buon senso e rispetto delle regole”. Già in epoca pre-Covid-19 anche nel mondo della montagna, specie nella sua veste invernale, avevano fatto la loro comparsa leggi e regolamenti atti a disciplinare alcuni comportamenti con l’ottica della prevenzione degli incidenti e con un regime sanzionatorio nei confronti di eventuali responsabilità. In epoca Covid-19 sono state stese delle raccomandazioni riguardanti i professionisti della montagna (guide alpine e turistiche e maestri di sci).

Il 15 giugno 2020 è stato organizzato il seminario “Rifugi ai tempi del Covid-19: regole e informazioni anche in alta quota”. Si è parlato dell’importanza di avere regole uniformi, chiare e semplici nella comprensione e nell’applicazione, della centralità del ruolo del gestore, anche per una attenta quanto necessaria pianificazione delle escursioni, del grado di attenzione e di rispetto verso gli altri mostrato dagli alpinisti, del mantenimento, nonostante le nuove norme, della funzione di ricovero dei rifugi, soprattutto in caso di maltempo. Protagonisti del seminario, che si è svolto nella sala Depero del palazzo della provincia a Trento, i rappresentanti delle associazioni alpinistiche e dei rifugisti del territorio delle Dolomiti. A moderare la direttrice della Fondazione Dolomiti UNESCO Marcella Morandini. Nel corso della manifestazione si è parlato anche dell’urgente necessità di una normativa che regolamenti due nuove discipline che, negli ultimi anni, hanno visto un costante incremento del numero di praticanti: nonostante il periodo del Lockdown: il Canyoning e il Downhill.

Di buono c’è che, di recente, sono state emesse ordinanze per chiudere alcuni territori montani, con divieti per la pratica dello sci-alpinismo, in determinate zone o nel corso di particolari periodi. Ci si è, dunque, riappropriati della montagna nella sua veste più naturale e solitaria, ma proprio per questo non a “rischio zero”.

La montagna, grazie ai suoi spazi aperti può essere una valida alternativa per un ulteriore sviluppo futuro del turismo out-door, a patto che ci sia un approccio consapevole e maturo, appunto di buon senso. La pandemia ci ha insegnato che le sole restrizioni non possono bastare. Le imposizioni non bastano a ridurre i comportamenti pericolosi: è necessaria una corretta educazione alla montagna.

Cinzia Cristofoletti, medico del Centro di Addestramento Alpino della Polizia di Stato di Moena, è intervenuta con una relazione dal titolo “La prevenzione degli incidenti sugli sci e soccorso in pista”. La relatrice ha fatto presente che occorre una stretta collaborazione con il Corpo Nazionale del Soccorso Alpino e Speleologico, con il servizio di emergenza territoriale, con gli enti di volontariato e con le forze di polizia.

La Polizia di Stato collabora a partire dal 1958. Nel 2022 gli interventi del Soccorso Alpino sono stati 15.000. Dal 2003 funziona SIMON, un sistema di monitoraggio integrato per la sorveglianza degli incidenti in montagna con una rilevazione costante dell’incidentalità sulle piste di sci dell’intero territorio nazionale. Viene descritto il fenomeno infortunistico in base a numerose variabili: tipologie delle piste, condizioni ambientali, collocazione temporale dell’incidente, conseguenze sanitarie. È stato messo a punto un piano di strategia per la prevenzione degli incidenti sulle piste di sci, per garantire un maggior livello di sicurezza. Esiste un decalogo dello sciatore (1967). Il primo livello di prevenzione prevede azioni che mirano ad evitare l’incidente attraverso informazione, educazione e formazione. Sono state introdotte alcune novità: assicurazione obbligatoria per gestori e utenti, percorribilità delle piste in base alla capacità degli sciatori, obbligo dell’uso del casco per gli under 18, accertamenti alcolemici e tossicologici, diversa formulazione dell’obbligo di soccorso. Un secondo livello, rivolto a minimizzare le conseguenze dell’incidente durante il suo svolgimento suggerisce dispositivi di sicurezza quali reti di protezione fisse e mobili, materassi anti-strappi e impermeabili con materiale interno assorbente ad alta densità a protezione di ostacoli inamovibili, apprestamenti di delimitazione. Il terzo livello volto a minimizzare le conseguenze dell’incidente dopo che questo ha avuto luogo (breve-medio termine), contempla il primo soccorso e il pronto soccorso. Un quarto livello, volto a minimizzare gli esiti dell’incidente include riabilitazione e ricostruzione puntuale della dinamica degli incidenti, per la valutazione della responsabilità e la gestione del risarcimento. Nel 2022 sono state effettuate 500 sanzioni sulle piste di sci; 803 interventi di elisoccorso e si sono registrati 21 decessi.

Francesco Marchiori, dirigente medico del Servizio di Igiene Pubblica dell’ULSS 9 Scaligera, ha parlato di “Coronavirus nelle diverse nazioni di montagna”. L’11 marzo 2020 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato lo stato di pandemia per la Covid-19. In tutti gli stati sono state applicate misure di mitigazione: distanziamento sociale, lavaggio delle mani, utilizzo della mascherina, confinamento domiciliare quanto più possibile e di contenimento: lockdown e contact tracing.

Paesi caratterizzati da realtà isolate, come quelli con importanti superfici montane, hanno dovuto affrontare la gestione di questa nuova patologia, confrontandosi con problematiche territoriali peculiari rispetto ad altri contesti: disuguaglianze, territorio, epidemiologia, offerta sanitaria e sanità pubblica. Sono stati presi in considerazione sei paesi appartenenti a continenti diversi e rappresentanti differenti realtà geopolitiche: Nepal, Bolivia, Pakistan, Alaska, Austria, Etiopia. Per ciascuno di essi sono stati valutati il numero di abitanti, alcuni indici di benessere economico, i casi di infezione da SARS-CoV-2, i tamponi eseguiti, i decessi e i tassi di copertura vaccinale. Ciascun dato è riferito ad un periodo che va dal 1° marzo 2020 al 30 aprile 2022.

L’impatto e le conseguenze della diffusione dell’infezione ci sono stati per tutti, indipendentemente dai diversi contesti continentali/nazionali/locali (densità abitativa/climi impegnativi…). Correlate al territorio, sono state rilevate importanti difficoltà organizzative/assistenziali/logistiche relative all’ accesso alle cure e ai vaccini. È stata posta particolare attenzione nell’individuazione e nell’assistenza di determinati gruppi a rischio. Da qui è emersa con chiarezza l’urgenza di una maggiore universalità nell’accesso ai servizi sanitari come testing, vaccinazione, pronto soccorso…Allo stesso tempo occorrerebbe migliorare la capacità di raccogliere ed elaborare dati. Ora sarebbe almeno necessario indagare sui setting sanitari risparmiati dalla pandemia allo scopo di utilizzarli come modelli anche alla luce della necessità di rafforzare la salute di persone, animali e ambiente…Proprio alcuni contesti montani potrebbero fornire spunti in tal senso…

Sandro Carpineta, medico psichiatra di Trento, ha parlato delle “Nuove frontiere con i pazienti psichiatrici in montagna”. Lo psicologo Giulio Scoppola, alla fine degli anni ’90, ha proposto la seguente definizione di montagnaterapia: “ un originale approccio metodologico a carattere terapeutico-riabilitativo e/o socio-educativo, finalizzato alla prevenzione secondaria, alla cura ed alla riabilitazione di individui portatori di differenti problematiche, patologie o disabilità; esso è progettato per svolgersi, attraverso il lavoro sulle dinamiche di gruppo, nell’ambiente culturale, naturale e artificiale della montagna”. Quindi si tratta di una montagna che è anche fonte di cura e di riabilitazione. La montagnaterapia si rivolge oggi all’area della psichiatria, all’adolescenza problematica, all’area della dipendenza, ai non vedenti, all’integrazione sociale, alla riabilitazione cardiologica, alle disabilità sensitive e motorie, ai malati diabetici e/o oncologici. Il concetto di riabilitazione è fondato sul presupposto che, nonostante il disagio psichico, la sofferenza e la disabilità, il malato mentale possa riacquisire e sviluppare la capacità perduta e recuperare, quindi, ruoli adeguati nel proprio ambito familiare e sociale che gli consentano di integrarsi, nel modo migliore possibile, nella vita di comunità. Terapia significa intervenire sul mondo interno del paziente. Ogni modificazione di esso si rifletterà sul suo comportamento e sul suo modo di interagire con la realtà interna. Allo stesso modo ogni intervento sul mondo esterno, se attuato con finalità riabilitative, potrà produrre delle modificazioni del mondo interno del paziente. Lo studioso Mark Spivak conferma che per riabilitazione possiamo intendere tutte le misure che consentono al malato di recuperare le capacità perdute, di sviluppare le sue potenzialità e di acquisire comportamenti socialmente condivisi che gli consentano di muoversi in modo adeguato ed efficace nel suo spazio sociale. Il lavoro riabilitativo, secondo Correale, è una “esperienza vissuta”. Quindi, la riabilitazione è un ambito dove è permesso alle persone di affrontare “esperienze globali ripetute”. L’esperienza è diversa dal concetto di competenza perché implica una dimensione inconscia globale, che porta ad una diversa percezione del sé. Il punto centrale diventa, quindi, lo spostamento di pensiero dalla competenza al senso di sé. I principali determinanti di questa strategia riabilitativa sono:

·      Intervento diretto/indiretto e lavoro di integrazione su alcune specifiche aree psicopatologiche: corpo, gruppo, dimensione olistica, rapporto sé/ambiente e autostima.

·      Particolare attenzione alla dimensione socio-razionale: assenza di stigma, dimensione non sanitaria, riferimenti gerarchici modificati, relazioni di aiuto-solidarietà, perseguire una meta insieme, progettazione, verificare assieme i risultati.

·      Elementi fisici e tecnici: rapporto con l’ambiente, la natura, la meta, riconoscimento dei limiti, rapporto con i disagi, conoscenza delle tecniche.

 

Montagnaterapia è equilibrio, storia e cultura del territorio, contatto con la natura, fatica, verticalità, pioggia, vento, il gruppo e lo stare insieme, dimensione tecnica nello sci, nelle ferrate, in quota, con le ciaspole, in parete, ed è anche gioco, mangiare insieme, notte in rifugio, allegria.

Il principio è simile a quello pensato per costruire le ciaspole: più la base che accoglie il peso è allargata…meno si rischia di affondare con esso! (Mary Marshall, 1998). Mondi prima lontani si avvicinano e si incontrano.

Nel tempo sono emersi alcuni bisogni. Si è costituita una rete di contatti tra i gruppi con monitoraggio delle esperienze attive. Si sono sviluppate iniziative per l’aggiornamento e la formazione specifici per gli operatori. Si è attuata un’attenzione al tema della valutazione dei risultati e della ricerca scientifica. Si sono realizzate precise e documentate modalità di intervento e “buone pratiche”.

Maria Grazia Zuccali, presidente della sezione di Trento della Società Italiana di Igiene, e direttrice dell’Unità Operativa di Igiene e Sanità Pubblica di Trento, ha parlato delle “Vaccinazioni di routine e quelle raccomandate in montagna”. Per i frequentatori della montagna vengono raccomandate le vaccinazioni contro difterite, tetano, pertosse e TBE, l’encefalite da zecche. Il tetano che ha un’incidenza elevata nelle nazioni più povere, mentre in Europa è meno presente (0,02 casi ogni 100.000 abitanti). L’encefalite da zecche è una malattia virale che colpisce il sistema nervoso centrale e che, talvolta, può essere mortale. In Trentino la vaccinazione viene offerta gratuitamente ai residenti. Per prevenire la malattia occorre rispettare alcune misure di comportamento: usare camicie a maniche lunghe e pantaloni lunghi, indossare abiti chiari, camminare possibilmente al centro dei sentieri per evitare il contatto con la vegetazione circostante, utilizzare sostanze repellenti da spruzzare su pelle e vestiti, ispezionare il corpo al termine di un’escursione (ascelle, inguine, addome, gambe, collo e nuca).

Antonella Bergamo, presidente della commissione medica della SAT (Società Alpinisti Trentini) di Trento, ha presentato una relazione dal titolo “La pelle va in montagna: principali problematiche dermatologiche”. Quando si sale in quota è opportuno proteggersi dai raggi solari, una raccomandazione apparentemente banale, ma indispensabile per evitare danni alla pelle. L’intensità delle radiazioni solari aumenta del 10-12% ogni 1000 metri di quota. La neve e il ghiaccio potenziano il riflesso. Tra i danni causati da un’eccessiva esposizione al sole ci sono le scottature (eritema solare), l’herpes simplex e l’oftalmia delle nevi. I danni cronici causati dal sole compaiono dopo molti anni con lesioni pretumorali e tumorali. Esistono molte creme protettive, ma nessuna garantisce una protezione totale. Vanno spalmate sulla pelle mezz’ora prima dell’esposizione al sole, ripetendo l’applicazione ogni tre ore, specialmente se si suda. L’abbigliamento deve essere idoneo, con un tessuto a trama fitta. Il cappello deve coprire orecchie e collo e gli occhiali da sole devono riportare il marchio CE.