La Fotografia

Un’immagine, trovata per caso in un archivio antico, mi ha raccontato il perché delle mie passioni

Giancelso Agazzi

 

 

Da dove vengo non lo sapevo. Ora lo so per certo, dopo aver guardato con tanta curiosità e stupore una fotografia in bianco e nero, trovata nell’archivio di un prozio alpinista, Guido, mentore del mio genitore. Mio padre, rimasto orfano di padre a dieci anni, venne avvicinato al mondo della montagna dallo zio che già da tempo lo praticava con passione.

 Scattata il 28 agosto 1927 sulla vetta della punta di Scais, che si trova al confine tra l’Alta Valle Seriana e la Valtellina e che Guido Ferrari amava molto, è un’immagine che mi ha permesso di scavare nelle memorie della mia famiglia. Mi trovo a riflettere su come l’abbigliamento di quei tempi fosse completamente diverso rispetto a quello utilizzato attualmente dagli alpinisti. Un modo di vestirsi uguale a quello che veniva indossato in città, con i gemelli d’oro e l’orologio nella tasca del panciotto. Non mancavano, invece, corda bastone e piccozza.

 A quel tempo Guido aveva 45 anni e due figli ancora troppo piccoli per essere portati in montagna.

 I due, zio e nipote, erano saliti al rifugio della Brunone, dove avevano trascorso la notte e, poi, il giorno successivo, avevano raggiunto la meta, difficile per quei tempi, soprattutto, per un ragazzo di 17 anni. Durante l’itinerario verso il rifugio il mio prozio aveva raccontato a mio papà la storia di quando aveva aperto una via lungo la parete Sud-Est del Pizzo del Diavolo di Tenda, anche detto il Cervino bergamasco. Era accaduto il 24 agosto 1907 quando lui aveva solo 25 anni, e, mentre ricordava, guardava avanti a sé quella stessa parete e, forse, avvertiva la stessa sensazione di calore e provava la stessa emozione per i raggi del tramonto.

Mia nonna si fidava evidentemente del fratello alpinista e della sua esperienza in montagna, tanto da affidargli l’unico figlio. Guido abitava a Treviglio: partiva dalla cittadina di pianura in moto, oppure in bicicletta o in treno, passava da Bergamo a prendere il nipote e, poi, insieme andavano in montagna. Ricordo bene il suo sidecar.

La Guerra Bianca era finita da nove anni e Guido raccontava a mio padre le avventure sulle montagne della Val Zebrù, sull’Adamello, sulle cime del Gavia: il San Matteo, il Tresero, la Cima San Giacomo che aveva conquistato con ottanta alpini del battaglione Mondovì nel 1918 grazie a una pregevole impresa alpinistica.

 Salendo al rifugio della Brunone i due erano passati dal bosco all’alta montagna, attraversando alcuni ruscelli e alcune zone di transizione tra diversi ambienti naturali al cospetto del Pizzo del Diavolo di Tenda. Luoghi severi e al tempo stesso magici che affascinavano il mio giovane genitore.

Alla sera, dopo cena, erano usciti dal rifugio per contemplare a bocca aperta le migliaia di stelle che tempestavano la volta celeste. Forse era la prima volta che mio padre si trovava di fronte a un simile spettacolo della natura a 2300 metri di quota.

La storia del rifugio risale al 1879, quando la sezione di Bergamo del CAI decise di ricavare il primo ricovero alpino delle Orobie riconvertendo una primitiva baita presso il passo della Scaletta (2.530 metri), utilizzata in origine come riparo per i lavoratori delle vicine miniere di ferro.

In quei luoghi Guido, molto giovane, si era congelato alcune dita di un piede dopo la

 salita in inverno del Pizzo Redorta nelle Orobie, partendo dal rifugio della Brunone, proprio dove stavano andando in quel pomeriggio di agosto. Guido raccontò a mio padre il tragico episodio della valanga che il 7 dicembre del 1909 travolse un gruppo di escursionisti trevigliesi, mentre stavano salendo al passo dei Laghi Gemelli in Alta Valle Brembana e che costò la vita al trevigliese Battista Oliva. Guido aveva 27 anni ed era giunto al passo dei Laghi Gemelli provenendo da Ardesio e dalla Val Canale in compagnia del fratello Antonio di 29 anni con l’intento di incontrare gli amici. Vi giunsero grazie a un provvidenziale ritardo, evitando la valanga che avrebbe potuto ucciderli. Il rifugio dei Laghi Gemelli, il terzo di proprietà della Sezione del CAI Bergamo, venne costruito nel 1889  con un solo piano, con pareti in muratura e tetto di ardesia, diviso in quattro locali.

Guido aveva un altro fratello, oltre a numerose sorelle, ufficiale di Cavalleria, che morì a causa della malaria contratta in Maremma.

Guido raccontò le sue giornate di caccia in Val Camonica negli anni seguenti la Grande Guerra, dopo che nel 1918 rimase vedovo. Sua moglie Ida Stella, sposata nel 1910, era morta nel settembre del 1918 a causa della febbre spagnola. Fu una delle prime donne, in provincia di Bergamo, ad usare gli sci. Guido saliva alle Foppe di Braone in compagnia del cognato Cecco (mio prozio) per cacciare. Mio padre, forse imparando dai due, divenne un abile cacciatore di montagna. Probabilmente imparò da Guido anche l’arte della fotografia.

Furono entrambi partigiani. Mio padre si era rifugiato dopo l’8 settembre 1943 in Alta Val Brembana sui piani dell’Avaro, e il prozio, a oltre sessant’anni, invece, aiutava il figlio Gianfranco nella Resistenza a Oltre Il Colle, raggiungendolo clandestinamente in bicicletta da Treviglio.

Pochi a quei tempi erano coloro che frequentavano la montagna, allora un bacino di curiosità e di avventura davvero impensabili.

Guido si recava d’inverno sull’altopiano di Selvino, sul Formico, alla Cantoniera della Presolana, a Oltre il Colle e a Foppolo.

Conosceva molto bene anche la zona del rifugio Antonio Curò che il CAI Bergamo edificò nel 1886, subito dopo il rifugio della Brunone. Venne allargato nel 1895 e spostato un poco più a Est.

Frequentò con assiduità anche le vette circostanti il rifugio Coca, costruito dalla Sezione del CAI Bergamo nel 1919 su progetto dell’Ingegnere Albani, per ricordare gli undici soci della Sezione caduti nel corso della Grande Guerra. Il rifugio era dotato di un unico locale che fungeva sia da cucina che da dormitorio.

La sete di conoscenza del selvaggio e la passione per l’avventura penso abbiano spinto mio padre a continuare a frequentare la montagna. Sicuramente egli ebbe modo di conoscere un ambiente più pulito e meno contaminato di quello che ho conosciuto io. Fu il prozio a comprargli i primi sci, facendolo appassionare allo sci-alpinismo. I primi sci sono comparsi nella bergamasca agli inizi del ‘900 importati dalla Scandinavia e Guido fu tra i primi ad acquistarli.

Fu lui ad insegnare a mio padre il vuoto alle spalle, come lo ha definito Marco Albino Ferrari, parlando di Ettore Castiglioni, un celebre alpinista morto tragicamente di ipotermia nel corso della Seconda Guerra Mondiale. Dopo la fine di quest’ultima mio padre conobbe mia madre, pure appassionata di montagna. Si sposarono nel 1948 ed andarono in viaggio di nozze sulle montagne della Val Martello in Alto Adige.

Ciò che lo zio ha fatto con mio padre, lui lo ha poi rifatto con me, incominciando a portarmi in montagna già in tenera età.

Insegnamento di vita, tradizione, oppure più semplicemente ansia di passare il testimone?

Guido non fu l’unico amante della montagna appartenente alla mia famiglia. Altri due prozii mi furono di esempio: i fratelli del nonno materno Nino Camplani, caduto molto giovane con Vittorio Serini il 13 agosto 1912, sulla Cima delle Granate in Val Camonica e Achille Camplani, socio accademico del CAI, autore di numerose salite realizzate nelle nelle Orobie, in Valle Camonica e in Val Masino.