La medicina di montagna oggi, tra passato e futuro

Giancelso Agazzi

 

 

Mi occupo di medicina di montagna da oltre trent’anni. È sempre stata una mia passione ed è per questo che ho seguito con attenzione (trepidazione?) la sua crescita negli anni. Si tratta di una disciplina di nicchia che, comunque, ha dato e continua a dare un aiuto agli appassionati della montagna. È nata anche grazie al contributo di illustri fisiologi, Angelo Mosso tra i primi a studiare il male acuto di montagna, Rodolfo Margaria, Paolo Cerretelli, Giuseppe Miserocchi, primi padri nobili in Italia della medicina di montagna, o di molti altri esperti che si occupano di ipossia, ovvero di quella condizione legata alla diminuzione dell’ossigeno che si verifica nell’organismo umano, andando in alta quota.

Nel 1979 ho iniziato a interessarmi di medicina di montagna, quando ho prestato il servizio militare presso la Scuola Militare Alpina di Aosta in qualità di sottotenente medico delle Truppe Alpine. Qui ho partecipato ad alcune missioni di soccorso in alta montagna, mentre nel 1983 ho preso pare come medico a una spedizione alpinistica in Pakistan, organizzata dalla Sezione del CAI di Bergamo, durante la quale ho avuto modo di comprendere a fondo le criticità legate a esperienze di simile complessità. Mi sono impratichito nell’ambito della medicina di montagna, seguendo le indicazioni della collega Annalisa Cogo, pneumologa dell’Università di Ferrara.

Agli inizi degli anni ’90 sono entrato a far parte della Commissione Centrale Medica del CAI. Ho, poi, frequentato nel 1996 il 3° corso del diploma di medicina di montagna dell’Università di Padova, allora diretto dal professor Tito Berti, cattedratico di Farmacologia, coadiuvato da Andrea Ponchia, da sempre l’anima organizzatrice del corso. Tito Berti ebbe l’intuizione di far nascere il diploma in occasione di uno dei convegni “Hypoxia” che si svolgono in Canada. Il corso si è imposto subito per l’eccellenza dei relatori, esperti riconosciuti nel campo della medicina di montagna e per il suo carattere non solo teorico, ma anche pratico.

Nel 1992 il celebre fisiologo americano John West tenne una conferenza presso l’Università di Padova alla quale partecipai, avendo modo in questa circostanza di ampliare le mie conoscenze.

Sono stato allievo del professor Pierre Girardet, medico anestesista e guida alpina, presso l’Università di Grenoble e del professor Jean Paul Richalet, fisiologo, a Parigi, seguendo i corsi di diploma (DUMM) da loro organizzati.

In occasione del terzo congresso internazionale di medicina di montagna organizzato dal 20 al 24 maggio 1998 dall’International Society of Mountain Medicine a Matsumoto, in Giappone, al quale ho partecipato con Oriana Pecchio e Andrea Ponchia, è nata l’idea di fondare la Società Italiana di Medicina di Montagna (SIMeM), condivisa con Annalisa Cogo e Corrado Angelini.

La SIMeM è stata fondata nel luglio del 1999 ad Arabba, in occasione del primo congresso della società che ha visto riuniti i principali esperti della disciplina a livello mondiale. La società, una costola della Commissione Centrale Medica del CAI, è stata voluta per fornire una maggiore scientificità alla medicina di montagna.

Durante alcuni corsi di medicina di montagna organizzati da medici del Club Alpino Svizzero (C.A.S.) negli anni ’90 ho avuto modo di conoscere due grandi medici di montagna, Urs Wiget e Bruno Durrer, che mi hanno dato l’opportunità entrare a far parte della commissione medica della Cisa-Ikar. La commissione continua a fornire un notevole contributo alla medicina di montagna, mediante la realizzazione di linee-guida o di procedure da seguire nel soccorso, occupandosi anche di ricerca. Un grande contributo viene dato dai team di soccorso in montagna che operano nel mondo, tra i quali il Corpo Nazionale del Soccorso Alpino e Speleologico (C.N.S.A.S.), nato e attivo in Italia dal 1954.

È stato il medico svizzero Pietro Segantini, presidente della commissione medica dell’U.I.A.A., che ho conosciuto in occasione di un congresso, che mi ha fatto conoscere la commissione di cui faccio parte da anni in qualità di corresponding member.

Ho imparato a conoscere l’importanza che ha la trasversalità nella medicina di montagna, condividendo molti insegnamenti e accrescendo la mia cultura medica.

Nel 2017 ho frequentato il master di secondo livello dedicato alla medicina delle spedizioni, ideato dall’amico e collega Luigi Festi dell’Università dell’Insubria di Varese.

La partecipazione alle attività del GRIMM di Sion (Groupe d’Intervention Médical en Montagne), un’associazione svizzera molto attiva, mi ha permesso di conoscere giovani medici e infermieri motivati che lavorano soprattutto nel campo del soccorso in montagna.

Fondamentale il lavoro di eccellenza svolto da realtà quali l’Istituto per la Medicina di Emergenza in Montagna dell’EURAC di Bolzano, creato dalla lungimiranza e dall’entusiasmo di Hermann Brugger e, ora, diretto da Giacomo Strapazzon.

Negli ultimi anni la montagnaterapia, un movimento nazionale di ricerca e di attività clinico-assistenziale, ha trovato una collocazione importante nel campo della medicina di montagna, individuando nelle escursioni uno strumento di cura e di prevenzione. La disciplina si occupa dei pazienti con handicap, soprattutto malattie mentali, che trovano nella montagna un importante aiuto ai loro problemi. Da pochi anni è nata la Società Italiana di Montagnaterapia (SIMonT).

Va ricordato il convegno “Hypoxia” un appuntamento imperdibile che ogni due anni viene organizzato a Lake Louise (Alberta) in Canada e che vede riuniti scienziati di tutto il mondo che si occupano di ipossia, ovvero di tutti quei problemi causati dalla carenza di ossigeno in alta quota. L’evento è stato ideato dagli americani Peter Hackett e Rob Roach, da molti anni illustri promotori della ricerca nel campo della medicina di montagna. In occasione di alcuni di questi incontri ho avuto modo di confrontarmi con John West, Tom Hornbein, Charles Houston, John Serveringhaus e Jim Milledge, miti nel campo della medicina di montagna.

Studi scientifici realizzati nel corso di spedizioni extra-europee o nei laboratori in alta quota hanno portato ad applicazioni nel campo della cardiologia, dell’oncologia o di altre specialità mediche, soprattutto che si occupano di patologie croniche.

Ma adesso tocca alle nuove generazioni aprirsi alla medicina di montagna, saranno loro a continuare con entusiasmo il lavoro finora portato avanti con grande passione e competenza da chi sta per passare il testimone. Saranno loro a lavorare secondo criteri di inclusione, imparando a fare rete e a sfruttare fino in fondo quanto la tecnologia mette e metterà a disposizione.

 

 

 

 

 

 


L