Insieme a Walter per una sera

Incontro con Angelo Ponta

Giancelso Agazzi

 

 

Giovedì 23 settembre 2021 è iniziato presso la sala convegni del Palamonti il ciclo di eventi organizzati dalla Sezione del CAI di Bergamo in occasione del decimo anniversario della scomparsa di Walter Bonatti, avvenuta nella notte tra il 13 e il 14 settembre 2011. La serata, dedicata ai due alpinisti caduti sulla nord-est del Pizzo Badile in Val Bregaglia, è stata condotta da Sabrina Menni.

È stato un evento speciale, con protagonista Angelo Ponta, giornalista originario della Valdossola, biografo di Walter Bonatti, cha ha curato alcuni suoi libri ed alcune riedizioni. Ponta, che collabora con il Museo Nazionale della Montagna di Torino, per oltre cinque anni si è occupato dell’archivio del “re delle Alpi” e, con Roberto Mantovani, ha curato l’allestimento della recente mostra “Stati di grazia”, nei locali del Museo della Montagna di Torino al Monte dei Cappuccini, mentre, nel 2015, si è occupato della rassegna “Fotografie dai grandi spazi”, esposta nel palazzo della Ragione a Milano.

 Ponta ha esordito ricordando Bonatti attraverso alcuni particolari inediti della sua vita, emersi dall’archivio della casa di Dubino, donato dalla famiglia di Rossana Podestà al Museo della Montagna di Torino. In esso, moltissimo materiale fotografico e documenti raccolti da Bonatti in oltre sessant’anni: centinaia di foto mai viste, lettere, appunti, diari delle spedizioni, relazioni tecniche delle arrampicate, un racconto sorprendente del suo “sogno verticale”. Bonatti era sempre alla ricerca di se stesso, per misurare i propri limiti, per meglio conoscersi. Cercava in sé qualcosa di nuovo, di antico che già c’era in lui. Nelle sue imprese alpinistiche usava la stessa attrezzatura dei suoi predecessori. La sua arte di arrampicarsi si serviva di mezzi molto semplici ed economici. Per lui era importante la solitudine come mezzo per entrare in contatto con se stesso. Mettersi in gioco attraverso l’esplorazione del mondo, scoprendo veri e propri stati di grazia. Cercava esperienze fuori dal comune ed aveva una grande fame di conoscenza.  Voleva vivere il più degnamente e il più intensamente possibile. In lui convivevano una forza spirituale che lo elevava e un desiderio che lo stimolava. La volontà di vivere era alla base di tutte le sue imprese. L’avventura è stato un mezzo non un fine a se stesso per sapere chi era e cosa voleva, per conoscersi. Dopo la fase alpinistica aveva trasposto il verticale in orizzontale, incominciando ad esplorare i luoghi più remoti del pianeta.

Walter entrava in ambienti selvaggi e, a volte, terrificanti, con naturalezza. Ponta ha ricordato l’incontro con i leoni in Africa, durante uno dei suoi viaggi di esplorazione. In quell’occasione emerse in lui qualcosa che non sapeva di avere. Affrontò la paura, conoscendone il prezzo. Riuscì ad entrare in rapporto con il selvatico, disarmato. Lo stesso fece quando incontrò, nei suoi viaggi straordinari, alcune popolazioni indigene, andando incontro ai mondi ignoti.

La mostra di Torino rievoca situazioni che non esistono più. Quella natura selvaggia che Bonatti ebbe la fortuna di conoscere è stata recintata e, in parte, non esiste più. Anche i suoi ghiacciai sono parzialmente spariti, così come non esiste (quasi) più la consuetudine di costruire un archivio, non di carta quanto meno. Walter conservava tutto della sua vita, compresi sessant’anni di corrispondenze, che aveva fotocopiato. Oggi i più considerano superfluo, una fatica inutile, raccogliere con ordine tanto materiale. Attualmente va tutto molto in fretta, la tendenza è di dare peso solo al “qui e ora”. Bonatti conservava le lettere che riceveva, ma anche quelle che spediva, le fotocopiava per paura di perderle, per un senso di sfiducia che gli era nato dentro dopo alcune esperienze negative che lo avevano profondamente segnato, in primis quella del K2. L’Archivio fotografico contiene più di centomila diapositive. Un immenso tesoro di materiali figlio del secolo scorso. Alcune fotografie contenute nell’archivio non vennero mai mostrate da Walter ad altre persone. Angelo ha potuto consultare la raccolta di documenti grazie a Rossana Podestà, con cui ha collaborato per un paio di anni. Dopo la scomparsa di Walter, lei continuò per mesi a parlare di lui al presente, come se fosse ancora vivo. Rossana apriva i cassetti, ricchi di ricordi, per ritrovare il suo compagno di vita. In questo viaggio ha scoperto un Walter che le era sconosciuto.

Nella primavera del 2011, due o tre mesi prima di morire, Walter aveva iniziato a scrivere un libro autobiografico e di fotografia, ed aveva già firmato un contratto con un editore. Il libro, dal titolo “Una vita libera”, è stato, poi, ripreso da Rossana che con l’aiuto di Ponta, l’ha pubblicato e presentato in vari luoghi d’Italia. Ponta ha trovato la registrazione di alcuni racconti. Walter non è mai riuscito a scrivere la sua biografia. Rossana non sapeva di tante cose conservate gelosamente da Walter.  Tra le registrazioni dei suoi racconti, che sarebbero servite a scrivere il libro, Ponta ne ha trovata una riguardante un litigio tra Walter e Rossana. Quest’ultima esprimeva il suo disappunto perché Walter continuava a mostrare ai suoi lettori le stesse immagini. Ha sbottato: perché non prendere qualcosa di nuovo per suscitare nei lettori nuove emozioni? Walter resisteva e non voleva farlo. Era stanco e provato dalla malattia. Ponta si chiede chi dei due avesse ragione. Forse tutti e due.

 Dopo due anni dalla scomparsa di Walter se n’è andata anche Rossana. A questo punto Ponta ha continuato a scavare nell’archivio per continuarne il lavoro. Qualcosa non è comprensibile nell’archivio, fotografie di cui non si sa nulla, prive di didascalia e di data. Walter aveva incominciato, nel corso del suo ultimo anno di vita, il lavoro di riordino dell’archivio, senza riuscire a finirlo. Aveva riempito di duplicati di diapositive alcuni sacchi. Ponta si era chiesto perché tanti documenti o fotografie fossero rimasti nei cassetti, inutilizzati. La sua ipotesi è che certi immagini, nomi, situazioni evocassero in lui sentimenti o risentimenti che non riusciva a tollerare dal punto di vista emotivo. In alcune delle foto trovate nell’archivio compaiono ragazzi vivi, vitali, contenti, i suoi coetanei, i figli dell’Italia della ricostruzione. Dopo la morte di Rossana Ponta ha incominciato a peregrinare in cerca di testimonianze, alla ricerca delle radici perdute, un vero viaggio nel tempo, contattando chi aveva conosciuto Walter. Ha raccontato l’episodio riportato da Camillo Barzaghi, alpinista e ginnasta monzese, coetaneo di Walter, a cui Bonatti aveva mentito per non accompagnarlo ad arrampicare durante un fine settimana. Erano gli anni ’50, e Walter si era accordato con Luciano Ghigo per andare ad allenarsi: con lui avrebbe salito il Grand Capucin nel 1951. Con Camillo Walter effettuò nel 1950 il primo tentativo di scalata della parete est del Grand Capucin e salì la parete nord-ovest del pizzo Badile. Florio Casati, classe 1923, aveva un negozio a Monza, e faceva parte del “Pell e Oss”, un gruppo di giovani alpinisti formato all’inizio da 13 persone. Florio aveva accolto Walter Bonatti nell’associazione e gli aveva firmato la tessera.

 Il bergamasco Dino Perolari, raccontava che quando Walter, suo amico fraterno, usciva dal collegio, preferiva fare ginnastica. In lui, tuttavia, già c’era lo spirito dell’alpinista solitario. Con Dino iniziò a frequentare le Orobie in Val Seriana. Con Bruna, la cugina di San Pietro in Cerro nel piacentino, più vecchia di tre anni, Walter aveva trascorso alcuni anni della sua infanzia.  Con lei ed altri ragazzi andava sulle rive del vicino Po, per lui simile all’oceano, da dove già sognava l’avventura, guardando le montagne verso nord. Nel 1939 Walter si traferì a Monza.

 Il Walter giornalista e scrittore, teneva in grande considerazione i suoi lettori: sentiva la loro simpatia e e per questa voleva gratificarli. La maggior parte delle persone che amavano Bonatti voleva rivivere le emozioni che lui aveva provato. Le fotografie sbalorditive riportate nei reportage di Epoca negli anni ’60 restituivano ai lettori, in particolare ai bambini, la stessa gioia che lui aveva provato. Il suo era uno stile narrativo essenziale, rispettoso dell’intelligenza del lettore.

Il caporedattore di Bonatti, collega di scrivania negli anni ’60, raccontava che voleva essere Bonatti in tutto: alpinista, esploratore, giornalista, reporter, fotografo. Voleva essere il migliore. Era un perfezionista, un uomo colto, che sapeva scrivere e fotografare. Voleva che il racconto di una scalata fosse impeccabile come la scalata stessa.

  Detestava la pigrizia, cercava la libertà in montagna e non si accontentava. Un invito a mettersi in gioco anche nelle piccole cose del quotidiano. Walter era solito dire che voleva esser ricordato non per quello che aveva fatto ma per come lo aveva fatto. Non riusciva a restare inattivo. I trent’anni della vita di Bonatti condivisi con Rossana Podestà riguardanti   la loro storia d’amore, a partire dal 1981, sono stati di recente messi in scena in un docu-drama da Stefano Vicario per la RAI, una grossa parte della sua vita attraverso materiale di archivio, ricostruzioni recitate e interviste esclusive.

Nonostante il trascorrere del tempo Walter ci parla ancora e ancora ci emoziona attraverso i suoi messaggi eterni.