IL XXVI CONGRESSO NAZIONALE SIMeM A SESTO PUSTERIA
ALTA, QUOTA, SPORT E SOCCORSO IN MONTAGNA: SE NE È PARLATO LO SCORSO SETTEMBRE DURANTE L’ANNUALE INCONTRO CON ESPERTI DI GRANDE AUTOREVOLEZZA
Di Giancelso Agazzi
Sabato 28 settembre 2024 si è svolto presso il Centro Eventi Dolomiti del comune di Sesto Pusteria (Bz) il XXVI congresso nazionale della Società Italiana di Medicina di Montagna (SIMeM). Quest’anno l’evento è stato organizzato con la collaborazione dell’Università di Padova, di Eurac Research di Bolzano e dell’Azienda Sanitaria dell’Alto Adige. Titolo del convegno “25 anni…e oltre. Tra alta quota, sport e soccorso in montagna”.
Dopo i saluti istituzionali ha preso la parola Urs Hefti, medico svizzero, presidente della commissione medica dell’UIAA. L’associazione, fondata nel 1932, conta 250 volontari e 72 nazioni di sei continenti. La commissione medica contribuisce a incrementare la conoscenza della medicina di montagna, occupandosi di raccomandazioni, advice pages, diploma di medicina di montagna (Ikar, ISMM) e corsi vari.
La lectio magistralis sull’adattamento e l’acclimatazione
Marco Maggiorini, medico svizzero, ha tenuto una lectio magistralis dal titolo “Malattie d’alta quota-stato dell’arte e prospettive future”. Il relatore ha descritto la fisiologia dell’adattamento e dell’acclimatazione all’ipossia ipobarica, della clinica e della fisiopatologia delle malattie dell’alta quota, delle raccomandazioni esistenti e delle future sfide della ricerca. Ha parlato del male acuto di montagna (AMS), dell’edema polmonare d’alta quota (HAPE) e dell’edema cerebrale d’alta quota (HACE). La prevalenza dell’AMS aumenta del 13% ogni 1000 metri di dislivello, mentre la sintomatologia diminuisce nel tempo. Fondamentali sono l’acclimatazione e l’ascesa, che deve essere moderata. Esistono una suscettibilità individuale e una predisposizione genetica all’HAPE in alcuni individui. Nel 2018 è stato realizzato un documento di consenso riguardante il Lake Louise Score per valutare il grado di AMS (risk assessment). Vi sono alcuni fattori che possono determinare un aumentato rischio di HAPE: forame ovale aperto, atresia /ipoplasia congenita dell’arteria polmonare, ipertensione polmonare a bassa quota, embolia polmonare, infiammazione di tipo sistemico che fa diminuire la soglia della formazione di edema a livello dei capillari polmonari. I farmaci indicati per la prevenzione e il trattamento dell’AMS sono sintomatici. Fanno parte dell’elenco paracetamolo, aspirina, ibuprofene, inibitori di pompa, metocloparamide, loperamide. Per la prevenzione si utilizzano actezolamide e ibuprofene. Per il trattamento, invece, acetazolamide (AMS lieve) e desametasone (AMS da moderato a severo). Per il trattamento dell’HAPE si devono somministrare ossigeno (4-6 litri/minuto), nifedipina (20 mg) o sildenafil (50 mg ogni otto ore). Si deve cercare di scendere di almeno 1000 metri. Per quanto riguarda le sfide future della ricerca in alta quota si deve pensare a studiare la suscettibilità individuale per AMS, HACE e HAPE. Andranno individuati trattamenti alternativi per profilassi e cura dell’AMS. Si dovrà studiare la fisiopatologia dell’HACE e la suscettibilità individuale dell’HAPE e del vascular remodelling (protezione di capillari). Anche i comitati etici si dovranno regolamentare il diritto di studiare i pazienti in alta quota.
Dalla prima volta sull’Everest a oggi
Guido Ferretti, professore ordinario di Fisiologia Umana del Dipartimento di Medicina Molecolare e Traslazionale dell’Università di Brescia, già professore di Fisiologia Umana presso l’Università di Ginevra, ha parlato de “L’impatto delle condizioni ambientali sulla performance in montagna a 70 anni dalla prima salita all’Everest”. Il relatore ha ricordato la conquista dell’Everest il 29 maggio 1953 da parte di Sir Edmund Hillary e dello sherpa Tenzing Norgay. I due utilizzarono l’ossigeno (quattro litro/minuto) con un peso di 18 chilogrammi. Il fisiologo inglese Lewis Griffith Cresswell Pugh (1909-1994) partecipò alla spedizione britannica all’Everest. Fu un leader scientifico e ispirò una generazione di scienziati nel campo della medicina e della fisiologia di alta quota per decadi dopo la Seconda Guerra Mondiale.
L’8 maggio 1978 Reinhold Messner e Peter Habeler hanno raggiunto la vetta dell’Everest senza l’utilizzo di ossigeno supplementare, a 25 anni dalla prima salita, rivoluzionando la storia della fisiologia. Guidetti ha fatto presente che, se l’Everest si trovasse dove si trova il Denali, non potrebbe essere salito senza ossigeno. La pressione barometrica è più alta d’estate che d’inverno. Hillary non era uno straordinario atleta, secondo le indagini effettuate a Oxford.
Il medico svizzero Oswald Ölz, spirito libero non condizionato dalla comunità scientifica internazionale, incoraggiò Messner a salire la più alta montagna del mondo senza ossigeno supplementare. Il chimico Alexander Kellas sosteneva, nel 1917, negli atti della Società di Geografia e in un documento dell’Alpine Club, che salire l’Everest senza ossigeno era possibile. “Sono dell’opinione che l’Everest possa essere scalato senza aiuti, ma che per raggiungere una quota compresa tra i 25,000 (7620 metri) e i 29,000 piedi (8839 metri) occorra mantenere una velocità oraria media compresa tra 300 (91 metri) e 350 piedi (107 metri), così sostenne Kellas, con un’intuizione che, anni dopo, altri grandi della montagna confermarono.
Quando Reinhold Messner e Peter Habeler misero piede sulla cima dell’Everest, 25 anni dopo la prima salita (1953), verificarono quanto Kellas aveva ipotizzato con i suoi studi: “l’Everest può essere scalato da un uomo dotato di eccellente forma fisica e mentale, senza ausili qualora le difficoltà della montagna non siano troppo elevate, o con l’utilizzo di ossigeno supplementare in caso di difficoltà alpinistiche sostenute”.
Nel 1983 Messner venne studiato presso l’Università di Ginevra: era dotato di una VO2 Massimale più bassa di quella di Hillary. Il fisiologo britannico John Scott Haldane si occupò dello studio della respirazione in alta quota. Non conta il valore della VO2 Massimale di partenza. Tutti siamo uguali sulla cima dell’Everest.
C’era una volta lo SKIMO
È seguita la relazione di Bernhard Reich del Rena Zentrum di Salzburg dal titolo “Ski-Mountaineering: from an alpine sport discipline to the Olympic Games”. Il relatore ha raccontato la storia dello SKIMO (Skimountaineering), le competizioni di sci-alpinismo a partire dal 1924, soffermandosi a descrivere quelle disputate ai nostri giorni. Ha parlato dei fattori che possono condizionare questo tipo di gare: il dislivello, il peso dell’equipaggiamento, l’esposizione all’altitudine e al freddo, l’alimentazione e la perdita di liquidi (disidratazione) nel corso delle gare di lunga distanza.
L’attività fisica come medicina
Marco Vecchiato, medico del Dipartimento di Medicina, UOC di Medicina dello Sport e dell’Esercizio dell’Università di Padova, ha parlato della “Prescrizione di esercizio e natura in montagna come strumento terapeutico per pazienti con patologie croniche”. L’esercizio fisico costituisce una medicina, come già affermato da Ippocrate. Il 54% della gente vive nelle città, dove scadente è la qualità dell’aria. Annualmente in Europa l’eccesso di mortalità legato all’inquinamento dell’aria ambiente è stimato in 790.000 per il 40-80% legato ad eventi cardiovascolari. Si stima che l’inquinamento dell’aria ambientale riduca l’aspettativa media di vita di circa 2.2 anni. I benefici cardiorespiratori della camminata si perdono quando si cammina in un ambiente inquinato. L’esercizio a piedi dovrebbe, invece, essere praticato nelle aree verdi urbane, lontano dal traffico ad alta densità. Gli attuali livelli di inquinamento atmosferico lungo le strade trafficate sono inaccettabii e devono essere controllati. L’esercizio fisico dovrebbe avvenire sempre in aree verdi per non subire i danni provocati dall’inquinamento (green space effect). Esistono tecniche terapeutiche (Nature based interventions, NB) pianificate, eseguite in ambienti naturali e basate sulla partecipazione attiva e sulla connessione tra le persone e la natura. Esiste un insieme di pratiche volte a ottenere effetti medici preventivi e/o terapeutici attraverso l’esposizione a stimoli naturali (nature therapy o green therapy). L’autore ha sottolineato l’importanza delle terapie verdi o naturali. La natura riduce i livelli di stress, riduce gli indici infiammatori, rinforza il sistema immunitario, produce benessere psicologico, aiuta il sistema nervoso simpatico, fa diminuire la pressione arteriosa sistolica. Ha parlato della terapia forestale e del bagno di foresta. La tradizione inglese di Shinrin-yoku. Il bagno di foresta è un’attività multidisciplinare, multiforme e multivalente svolta in mezzo agli alberi mediante l’idonea pratica di più discipline, è finalizzata al ricevimento di benefici fisici e psichici. L’attività basata sul bagno di foresta è finalizzata al miglioramento della salute fisica e mentale in modo strutturato. Le pratiche di Forest Bathing note come Shinrin-Yoku in Giappone cioè letteralmente “immergersi nell’atmosfera della foresta” e Forest Therapy sono modi per ottenere benessere ed effetti positivi per la salute. Queste terapie sono nate all’inizio degli anni ’80 in Giappone, quando il Ministero dell’agricoltura, delle foreste e della pesca giapponese ha introdotto lo Shinrin-Yoku e ha finanziato un ampio programma di ricerca per dimostrarne gli effetti medici e terapeutici. Successivamente è stato aperto il primo centro di terapia forestale e le università giapponesi offrono ora una specializzazione medica in medicina forestale, oggi molto diffusa in Nord Europa, USA e Canada. La terapia forestale è oggi riconosciuta da ONU, FAO e UNEP nell’ambito della ripresa verde post Covid-19. CAI e CNR hanno condotto e nella maggior parte dei casi organizzato alcune sessioni sperimentali di terapia forestale a partire dal mese di agosto 2020. I siti adatti devono trovarsi ad adeguata distanza in linea d’aria da fonti importanti di inquinanti antropogenici, in particolare almeno 20 chilometri o dislivello di 800 metri. Rifugi e percorsi devono essere raggiungibili mediante sentieri il cui grado di difficoltà sia classificato come T turistico o E escursionistico. L’impegno fisico deve essere di intensità lieve. Non superiore ai 3-4 chilometri, senza esposizioni o pendenze significative. Esistono specifici periodi nell’arco dell’anno. Vi sono specie forestali classificate nel contesto dei BVOC (ruolo delle conifere). Anche le condizioni meteo devono essere idonee. L’obiettivo è preventivo e/o terapeutico e può avvalersi di strumenti già in atto, sia di tipo farmacologico che di tipo psichico. Necessita di professionisti dedicati. Alcuni composti organici volatili sono presenti nelle foreste di montagna, soprattutto durante alcune ore del giorno. Hanno una funzione protettiva, contribuendo a ridurre lo stress psico-fisico. Notevoli sono i benefici dei monoterpeni nei soggetti asmatici. Il relatore ha parlato dei benefici legati all’effetto dell’ambiente. I partecipanti che hanno fatto una passeggiata di 90 minuti in un ambiente naturale hanno riportato livelli più bassi di ruminazione e hanno mostrato una ridotta attività neurale in un’area del cervello legata al rischio di malattia mentale rispetto a quelli che hanno camminato in un ambiente urbano. Una prescrizione di natura da parte di un medico migliora la qualità del sonno, il livello di energia, riduce lo stress, promuove l’attività fisica, controlla il peso corporeo, facilita il contatto con altre persone, migliora l’umore. Con il termine montagnaterapia si intende definire un originale approccio metodologico a carattere terapeutico-riabilitativo e/o socio-educativo, finalizzato alla prevenzione secondaria, alla cura e alla riabilitazione degli individui portatori di differenti problematiche, patologie o disabilità; esso è progettato per svolgersi, attraverso il lavoro sulle dinamiche di gruppo, nell’ambiente culturale, naturale e artificiale della montagna.
Il progetto MOVE
Nicola Borrasio, medico della Divisione di Medicina dello sport e dell’esercizio fisico del Dipartimento di Medicina dell’Università di Padova e dell’Eurac Research di Bolzano, ha illustrato il progetto “Move” con una presentazione dal titolo “Un algoritmo personalizzato per stimare i tempi di percorrenza e l’impegno fisico nell’hiking”.
L’algoritmo si occupa della formazione degli escursionisti, della loro preparazione e di fornire informazioni utili circa i percorsi di montagna (tempo consigliato, impegno del percorso, consumo calorico, perdite idro-saline e integrazione, consigli e precauzioni), compresa la segnaletica dei sentieri. Fornisce agli escursionisti indicazioni utili per scegliere il sentiero più sicuro e adatto al proprio livello funzionale e stato di salute. Vengono dati consigli e precauzioni da seguire da parte di persone affette da patologie croniche, con l’intento di incentivare il loro rapporto con la montagna e la pianificazione di un’uscita in ambiente montano. Esiste un’App scaricabile dedicata. L’iniziativa si è aggiudicata il quinto posto assoluto alla Start Cup Veneto 2022.
Le donne della spedizione K2-70
È seguita la presentazione di Lorenza Pratali, primo ricercatore dell’Istituto di Fisiologia Clinica del CNR di Pisa e Past President della SIMeM, dal titolo “Spedizione K2-70: pre-screening, allenamento e problematiche mediche”. La spedizione era composta da quattro alpiniste italiane e quattro pakistane con età compresa tra 19 e 51 anni. La durata è stata di circa due mesi, molto intensi. È stata necessaria una stretta collaborazione tra le varie istituzioni. Oltre alle alpiniste era presente un team di cinque persone dedicato alla logistica, oltre a cinque video maker/giornalisti, un team di sei persone della RAI, tre ricercatori di ICE Memory, quattro portatori d’alta quota e dieci persone addette al campo base e 100 portatori. In totale hanno partecipato all’impresa 139 persone. Nel corso della spedizione sono stati eseguiti vari test per valutare la salute delle alpiniste e per effettuare alcune ricerche piuttosto complesse. Nella fase preparatoria sono stati organizzati uno zaino medico e i vari dispositivi sanitari. È stata decisa la strategia dell’acclimatamento e predisposta una piattaforma di teleconsulto. Sono state valutate le possibilità di eventuale evacuazione a più bassa quota. Sempre nella fase pre-spedizione sono stati eseguiti esami ematochimici, esame delle urine, una valutazione ORL. Si è valutata la presenza di patologie croniche. Sono state effettuate una visita odontoiatrica e una valutazione dello stato psicologico. Sono state eseguite una visita dermatologica e una valutazione di allergie (alimentari e non) e vaccinale. Tra i parametri da monitorare prima della spedizione: misurazione ambulatoriale della pressione arteriosa e saturimetria in aria ambiente, ecocardiografia con stima della pressione sistolica polmonare, test da sforzo/Ergospirometria con valutazione della VO2 Massimale e stima della PASP, saturimetria, pressione arteriosa da sforzo, valutazione funziona vascolare, prove di funzionalità polmonare. Tutte le alpiniste hanno effettuato un periodo di acclimatamento. Prima del trekking di avvicinamento a Skardu Pratali ha organizzato un mini corso di medicina di montagna e soccorso per i partecipanti. L’acclimatamento è avvenuto tra 3000 e 6000 metri. Sulla montagna sono stati allestiti quattro campi (6060, 6500, 7300, 7900 metri). Nei quattro campi sono stati collocati un kit di primo soccorso e i farmaci per curare le malattie d’alta quota. Nei campi tre e quattro sono state sistemate due bombole di ossigeno. Ogni alpinista ha deciso come acclimatarsi. Il brutto tempo ha ostacolato la spedizione. I kit individuali in dotazione alle alpiniste sono stati rubati. È stato utilizzato il Lake Louise Score e sono stati distribuiti dei saturimetri. Tra le problematiche mediche incontrate: 24% AMS, 20% dermatologiche, 7% oculistiche, 7% infettive, 2% traumatologiche.
Sulla medicina di genere
Jacqueline Pichler Hefti, pneumologa della Swiss Sportclinic di Berna, ha parlato di “Women’s health at high altitudes a 7-partes series by the UIAA”. La relatrice ha affrontato le problematiche mediche di genere, presentando una relazione dal titolo “Do women get more mountain sickness at high altitude?”. Oltre cento anni fa le donne hanno iniziato a frequentare la montagna, come l’alpinista britannica Lucy Walker, già attiva nella seconda metà dell’Ottocento, o Dorothy Pilley, pure inglese. Tra il 1953 e il 1989 una media di 2,5 (4,5%) donne all’anno è salita sulla cima dell’Everest, tra il 1990 e il 2005 il numero è salito a 24,8 per anno (9,1%), mentre tra il 2006 e il 2019 la media è arrivata a 52,7 per anno (14,6%). Nel 2021 la percentuale di donne iscritte al Club Alpino Svizzero era del 40,2%. Nell’ambito dell’UIAA si è creato un gruppo di donne medico che si interessa dei problemi della donna in montagna: gravidanza, menopausa, contraccezione, nutrizione, patologie causate dal caldo e dal freddo, malattie provocate dall’alta quota. Nel 2022 è stato organizzato presso la capanna Diavolezza (2970 metri) in Svizzera un convegno dal titolo “Women going to altitude”. Il male acuto di montagna (AMS) è caratterizzato da cefalea, nausea e fatica. Ha una prevalenza a 2500 metri di quota compresa tra il 10 e il 25% e al di sopra dei 4500 metri di oltre il 50%. Ha una latenza di 6-12 ore, dipendendo dalla quota e dalla velocità di ascesa. L’edema cerebrale d’alta quota (HACE) presenta sintomi di tipo neurologico e compare di solito dopo due giorni passati a oltre 4000 metri. Ha una prevalenza dello 0,5-2%. Nelle donne esistono 35 studi sull’AMS e quattro sull’HACE. L’edema polmonare d’alta quota (HAPE) non ha un’origine cardiogenica. Compare oltre i 2500-3000 metri. Ha una prevalenza tra lo 0,2 e il 6% a 4500 metri e del 15% a 5500 metri. Un incremento non omogeneo della pressione sanguigna a livello polmonare porta a un danno dei capillari. Esistono solo sette studi sulle donne che vanno in alta quota. La presenza dell’84% di casi di HAPE tra gli uomini sembra riflettere una loro aumentata sensibilità. Uno studio retrospettivo effettuato in periodo invernale sulle montagne del Colorado (USA) di 46 casi di HAPE tra il 1975 e il 1982 a una quota di 2500 metri ha evidenziato una percentuale del 7% (tre casi) tra le donne e del 93% tra gli uomini (43 casi). La prevalenza tra gli uomini è stata di 10/100.000 e nelle donne di 0,74/100.000. Sembra che la minore vasocostrizione polmonare ipossica e il tipo di risposta ventilatoria ipossica nelle donne dipendano dagli ormoni femminili. Tra le criticità, il fatto che molti uomini si espongono all’ipossia ipossica e che la maggior parte degli studi sono stati realizzati sugli uomini. Diverso è il comportamento degli uomini rispetto alle donne nell’affrontare le insidie della montagna. L’appartenenza di genere non sembra essere un fattore di rischio per AMS e HACE. A incidere, ci sono numerose variabili individuali.
AMS e cefalea d’alta quota
Marika Falla, neurologa dell’Eurac di Bolzano e componente del direttivo della SIMeM, ha parlato di “Male acuto e cefalea d’alta quota nei nostri rifugi: c’è differenza tra donne e uomini? Uno studio tra SIMeM, CCM-CAI e altri enti italiani”. La relatrice ha illustrato il Lake Louise Score (LLS) autocompilato, ideato per un’autovalutazione dell’AMS. A 3000-3500 metri di quota l’AMS ha una prevalenza del 25-40%. Aumenta salendo a quote superiori ai 2500 metri. Si nota un aumento della prevalenza del 13% ogni 1000 metri di dislivello. La cefalea da elevata altitudine è una complicanza frequente dell’ascesa in quota, che si verifica in più del 30% degli alpinisti. Tra i fattori di rischio una storia di emicrania, una bassa saturazione arteriosa di ossigeno, un alto grado percepito di sforzo, restrizioni del flusso venoso e ridotta assunzione di liquidi (<due litri in 24 ore). La cefalea è uno dei sintomi cardine dell’AMS, anche se l’assenza non ne esclude la diagnosi. La maggior parte dei casi di cefalea da altitudine risponde agli analgesici semplici come il paracetamolo o l’ibuprofene. L’AMS consiste di almeno una cefalea moderata in combinazione con uno o più dei seguenti sintomi: nausea, inappetenza, affaticamento, fotofobia, vertigini e disturbi del sonno. L’acetazolamide e gli steroidi possono ridurre la suscettibilità all’AMS. Altre strategie preventive includono due giorni di acclimatazione prima di impegnarsi in un intenso esercizio fisico ad altitudini elevate, assunzione di liquidi in notevole quantità e astensione dall’alcool. Abitare a quote superiori ai 1000 metri aumenta non solo la prevalenza, ma anche la gravità dei sintomi. I meccanismi che provocano l’emicrania sono sconosciuti e, probabilmente, non sono correlati a quelli della cefalea da elevata altitudine. Falla ha descritto lo studio effettuato mediante l’utilizzo di un questionario su 204 soggetti (48% donne) con più di 18 anni. I parametri studiati sono stati frequenza cardiaca, pressione arteriosa, saturazione periferica di ossigeno. Si è notata una differenza tra il LLS compilato in autonomia e quello compilato da un sanitario. L’AMS è stato rilevato in 14 individui (7%). La cefalea d’alta quota è comparsa in 20 soggetti.
Uomini e donne: quali differenze in alta quota
Vittore Verratti, professore associato di Scienze dell’Esercizio e dello Sport dell’Università di Chieti, ha parlato di “Asse ipotalamo-ipofisario ad alta quota: differenze di genere”. L’alta quota causa cambiamenti endocrini significativi. Nella donna si verificano una riduzione della riserva ovarica e dei livelli degli ormoni sessuali. Si alterano i livelli degli estrogeni e del progesterone. Vi sono alterazioni dell’ovulazione e della fertilità. Vi sono una maggiore probabilità di aborto e un ritardo dello sviluppo embrionario, con un aumento della mortalità embrionale. Nell’uomo si registrano ridotti livelli di testosterone e di gonadotropine, con alterato stato di fertilità. I livelli di cortisolo aumentano in modo significativo in risposta all’ipossia acuta, facilitando l’adattamento allo stress. Le donne tendono ad avere una risposta attenuata rispetto agli uomini, il che suggerisce una maggiore resilienza a lungo termine. Sebbene il sistema endocrino possa adattarsi parzialmente all’altitudine, a quote molto elevate diventa sempre più disregolato, con importanti implicazioni per l’abitabilità umana a lungo termine in tali ambienti.
Nel sesso femminile la riduzione del testosterone durante l’esposizione all’alta quota può essere attribuita a diverse cause legate all’ipossia e allo stress fisiologico.
Si verifica una ridotta disponibilità di substrati per la sintesi ormonale. Vi sono una riduzione del colesterolo e dell’attività dell’enzima aromatasi che trasforma il testosterone in estradiolo. Si verificano una risposta infiammatoria sistemica e un aumento del cortisolo che può interferire con la funzione ovarica e la produzione di testosterone. L’aumento di prolattina e cortisolo determina un effetto inibitorio sull’asse ipotalamo-ipofisi-gonadi, contribuendo a far ridurre il testosterone. Una maggior richiesta energetica può portare a una riduzione della produzione di ormoni sessuali, poiché l’organismo dà priorità alle funzioni vitali rispetto alla riproduzione. Nelle donne ciò si traduce in un calo del testosterone e del progesterone. In sintesi, la combinazione di ipossia, stress fisiologico, infiammazione e aumento del dispendio energetico contribuiscono alla riduzione del testosterone nelle donne durante l’esposizione all’alta quota. Tuttavia, questo effetto è reversibile una volta che il soggetto ritorna a basse quote, dove i livelli ormonali si normalizzano gradualmente. Per quanto riguarda l’asse ipotalamo-ipofisi in alta quota si evidenziano differenze di genere. Si hanno risposte ormonali diverse. Entrambi i sessi attivano l’asse surrenale (aumento del cortisolo), con un adattamento parziale e disomogeneo. Le donne mostrano una maggiore vulnerabilità dell’asse gonadico (diminuzione di progesterone e testosterone). L’impatto su ovulazione e sulla fertilità risulta più marcato nelle donne. Il cortisolo aumenta in entrambi i sessi. Le donne mostrano una maggiore resilienza e stabilità ormonale a lungo termine. In entrambi i sessi TSH, FT3 e FT4 sono stabili. Con il ritorno alla bassa quota si assiste a un graduale ripristino dei livelli ormonali. Gli effetti non sono, dunque, permanenti.
In conclusione uomini e donne mostrano una capacità adattativa complessa, ma differente all’alta quota attraverso l’asse ipotalamo-ipofisario. Mentre gli uomini tendono a subire meno alterazioni permanenti nell’asse gonadico, le donne mostrano una maggiore vulnerabilità e sensibilità a queste condizioni estreme.
La capacità di entrambi i sessi di recuperare dopo il ritorno al livello del mare sottolinea un’importante flessibilità adattativa, fondamentale per la sopravvivenza e la funzionalità in ambienti di alta quota. Carlos Monge Medrano effettuò studi sulla fertilità in quota.
L’alta quota: gli effetti sulla funzione polmonare
Guia Tagliapietra, dottoranda della Facoltà di Biologia e Medicina dell’Istituto di Scienze dello Sport dell’Università di Losanna, ha parlato degli “Effetti dell’alta quota e dell’esercizio fisico intenso sulla funzione polmonare dei militari appartenenti alle truppe alpine italiane”. La relatrice ha descritto le risposte adattative a livello dell’apparato respiratorio in alta quota e dell’accumulo di liquido extravascolare nel polmone, un meccanismo considerato di tipo parafisiologico. Lo studio è stato effettuato mediante la misurazione della resistenza e della reattanza a livello polmonare. Un accumulo di fluido nell’interstizio polmonare comprime le vie aeree più sottili e il tessuto polmonare perde in maniera più o meno significativa la propria capacità di distendersi. È proprio l’alto grado di elasticità a favorire l’ingresso e l’espulsione dell’aria. L’aumento della pressione nell’arteria polmonare e della permeabilità endoteliale durante l’esposizione all’alta quota può portare a un edema interstiziale che influisce sulla meccanofisiologia polmonare. È stato dimostrato che l’esercizio fisico intenso induce edema interstiziale anche a livello del mare. Gli effetti combinati dell’alta quota e dell’esercizio sulla resistenza e reattanza polmonari rimangono poco studiati. Lo studio è stato effettuato su 18 militari con età media di 35 anni, altezza media di 180 centimetri e peso medio di 78 chilogrammi. I test sono stati effettuati sul livello del mare a Pollein (Ao), successivamente a Punta Helbronner (3375 metri) dove i militari hanno soggiornato per tre giorni in tenda sul ghiacciaio del Gigante (prima e dopo esercizio) e, infine, ancora a Pollein. Le valutazioni della funzione polmonare sono state effettuate con il metodo della oscillometria respiratoria, utilizzando un dispositivo commerciale (Resmon Pro Full, Restech Italia). L’oscillometria applicata alle vie aeree sfrutta l’impiego di onde sonore, in un range di frequenze prestabilite (5-19 Hz), trasmesse nei polmoni durante la respirazione tranquilla. L’analisi dei diversi parametri ricavati consente di valutare la resistenza delle vie aeree, dalle più grandi alle più piccole e il grado di distensibilità dei polmoni. Le variazioni della meccanica polmonare correlano con i dati dell’ecografia polmonare. Con l’incremento del numero delle strie B, il polmone diventa meno espansibile e le vie aeree periferiche sono compresse. L’esposizione acuta all’alta quota e l’esercizio fisico possono causare piccoli e progressivi cambiamenti nella meccanica polmonare, probabilmente dovuti a un interessamento dell’interstizio polmonare. Lo studio è stato effettuato in collaborazione con il Politecnico dell’Università di Milano.
Nel pomeriggio si è tenuta la seconda sessione del convegno.
Sanità e Montagna
Hubert Messner, assessore alla sanità della regione Alto Adige, ha preso la parola. Il numero delle persone con più di sessant’anni è in continuo aumento. Il 70% del budget della sanità serve per la cura delle malattie croniche. Compiti della sanità: formare, istruire e divulgare. Attualmente la sanità è di tipo saluto-centrica e non malato-centrica. Importante è la prevenzione primaria con i programmi di screening. Il relatore ha sottolineato l’importanza della ricerca. La sanità deve spingere il sistema sanitario verso l’eccellenza.
Droni al servizio della montagna
È seguita la presentazione di Abraham Mejia-Anguilar, ricercatore dell’Eurac Research di Bolzano, dal titolo “Drones in mountain rescue: from the Dolomites to the Himalayas”. È stato descritto l’impiego che viene fatto attualmente dei droni per il soccorso in montagna. È stato ricordato il caso di un soccorso avvenuto a 7600 metri sul Broad Peak in Pakistan, mediante l’uso di un drone, nel corso del quale è stato salvato un alpinista infortunato. I droni possono trasportare un defibrillatore portatile (DAE), aiutare la localizzazione delle persone infortunate o disperse, ridurre i tempi di un soccorso e, di conseguenza, permettere di trattare prima le vittime di un incidente in montagna con il trasporto di un medical kit (riduzione del 7-10% ogni minuto). È stato realizzato il Medevac Drone.
Sulle procedure di soccorso
Simon Rauch, medico di Eurac Research di Bolzano e del Reparto di Anestesia e Terapia Intensiva dell’Ospedale di Merano (SABES) (Bz), ha parlato di “Mountain rescue & HEMS, exploring limits for drugs, equipment and medical personnel”. Spesso l’elisoccorso non può intervenire a causa di condizioni climatiche avverse. La durata media di una missione di soccorso in montagna è di 120 minuti, mentre in una regione urbana è di 70 minuti. Importante è la conservazione dei farmaci. Per circa il 40% del tempo i farmaci sono conservati in modo non corretto. Nonostante ciò sono stabili. Le batterie dei device tecnologici durano di meno se esposte al freddo. I presidi di tipo medico possono deperire in un ambiente difficile. Il freddo e il vento condizionano le manovre di soccorso. A volte è difficile trovare un accesso venoso e somministrare per via endovenosa i farmaci analgesici, oppure la gestione delle vie aeree o l’effettuazione di una toracostomia. Alcune procedure di tipo medico necessitano di più tempo e sono più stressanti, ma l’esperienza dei sanitari può aiutare nel ridurre le difficoltà incontrate. I soccorritori si devono abituare a operare in condizioni estreme. Occorre scegliere bene i materiali.
Nuovi protocolli per fronteggiare le patologie da freddo
Hanno, poi, preso la parola Maurizio Migliari e Serena Ruberti del Soreu Lombardia con una relazione dal titolo “Nuove linee guida e protocolli per gestione delle patologie da freddo per il personale del soccorso extra-ospedaliero”. La mission di Areu è costituita dal soccorso sanitario pre-ospedaliero in emergenza-urgenza, dal coordinamento del trasporto di organi, tessuti e di equipe nelle attività di prelievo e trapianto e dei trasporti sanitari non urgenti sul territorio regionale, dalle attività di scambio e compensazione di sangue ed emocomponenti coordinati dalla struttura regionale di riferimento, dall’operatività delle tre centrali uniche di risposte (CUR) e dal numero unico di emergenza (NUE) 112.
L’ipotermia accidentale corrisponde a una diminuzione della temperatura corporea centrale inferiore a 35°C. L’ipotermia primaria è indotta dall’esposizione al freddo, quella secondaria è indotta da malattia o altre cause esterne. L’ipotermia primaria è più frequente nell’ambiente esterno (atleti o persone disperse) e in ambienti urbani (senzatetto e tossicodipendenti), mentre l’ipotermia secondaria sta rapidamente aumentando tra le persone anziane e con vari fattori di morbidità in casa, in ambiente chiuso. Negli Stati Uniti d’America ogni anno muoiono circa 1500 persone per ipotermia primaria. La percentuale di mortalità tra i pazienti ipotermici va dal 12 all’80%, dal 30 al 78% nei soggetti colpiti da ipotermia severa. I traumatizzati colpiti da ipotermia (<32°C) presentano una mortalità del 100%. Fondamentali il saper riconoscere e il rianimare i pazienti ipotermici. Elementi di primaria importanza di cui tenere conto sono: caratteristiche del paziente (età, comorbidità), condizioni ambientali (luogo, valanga, annegamento, trauma), temperatura corporea e alterazioni cliniche (stato di coscienza, emodinamica, respiro). Il paziente ipotermico deve essere riportato alla temperatura normale. La procedura va incominciata in ambito pre-ospedaliero. Si devono somministrare liquidi caldi per via endovenosa (40-42°C), gas caldi (42°C-0.5/ora), lavaggio pleurico, peritoneale, vescicale (0.5-3°C/ora). Si possono utilizzare cateteri intravascolari (1.5-2.5°/ora). Possono essere utilizzate CVVH (2-3°C/ora) e ECPR (4-5°C/ora, fino a 10°C/ora). Quando si utilizza l’ECLS quale modalità di riscaldamento, la percentuale di sopravvivenza descritta in letteratura è di circa il 70 % (range 50-100%). Importante è l’utilizzo dell’HOPE Score e dell’ICE Score. È stato descritto il protocollo ECMO.
Giambattista Parigi, chirurgo pediatrico dell’Università di Pavia, ha illustrato il progetto realizzato dalla commissione medica del CAI di Bergamo, riguardante la cardioprotezione negli undici rifugi sezionali, descrivendo i cinque casi in cui i defibrillatori portatili sono stati utilizzati.
La tavola rotonda
Simona Mrakic Sposta, Annalisa Cogo,Vittore Verratti e Giancelso Agazzi sono intervenuti per presentare il libro “Venticinque anni di sentieri scientifici”, scritto per ricordare i 25 anni di attività della SIMeM.
È seguita una tavola rotonda, moderata dal giornalista Stefano Ardito, alla quale hanno preso parte Luigi Festi, Corrado Angelini, Guido Giardini, Andrea Ponchia, Oriana Pecchio, Annalisa Cogo, Mario Milani, Stefano Trinchi, Nicola Borrasio e Claudia Dallari. Cogo ha fatto presente che è mancato negli anni il collegamento tra SIMeM e medici di medicina generale. Pecchio ha sottolineato l’importanza di un approccio di tipo divulgativo per tutti i fruitori della montagna. Il problema è come raggiungere queste persone. Non sempre il medico di base si occupa in modo corretto dei soggetti che vanno in quota. Angelini ha ricordato le linee guida che sono state messe a punto dalla commissione medica dell’UIAA. Gardini ha menzionato quelle scritte per i pazienti neurologici che vogliono andare in montagna. Ponchia si è riferito al diploma in medicina di montagna dell’Università di Padova al quale hanno partecipato nel corso degli anni circa 500 medici. Ponchia ha proposto di costruire una rete per i medici costituita da specialisti esperti nel campo della medicina di montagna, ai quali i pazienti, inclusi i portatori di patologie di tipo cronico, si possano rivolgere all’occorrenza. Trinchi ha fatto presente che a livello nazionale esiste già una rete del CNSAS molto valida. Milani ha sottolineato l’importanza del fattore cultura che cambia a seconda delle peculiarità di una regione. Dallari ha fatto presente il buon livello di standardizzazione del personale sanitario nell’ambito del soccorso in montagna. Attualmente, in seguito al cambiamento climatico in atto, l’epidemiologia degli incidenti in montagna si sta modificando. Giardini ha parlato dell’esperienza dell’ambulatorio di medicina di montagna dell’ospedale di Aosta. Altre realtà simili sono nate in Friuli e a Bolzano. Festi ha parlato degli sviluppi futuri della medicina di montagna e dei giovani sanitari, presenti numerosi al convegno. La medicina di montagna deve cercare di permettere e non di proibire la frequentazione dell’ambiente montano. Sarebbe opportuno creare un albo di medici esperti che siano in grado di far fronte alle richieste dei frequentatori della montagna. A tal proposito sarebbe necessario il supporto ministeriale. Festi ha fatto presente che la SIMeM è nata per implementare la ricerca. Dovrebbe interagire con la commissione centrale medica del CAI, portando avanti messaggi utili. La medicina di montagna si deve adeguare ai mutamenti causati dagli eventi naturali avversi. Si deve dare spazio alla formazione. Importante il supporto dei media. Angelini ha fatto presente che, spesso, la stampa fornisce notizie fuorvianti. Ponchia ha fatto notare che la prevenzione non fa notizia. Milani ha ricordato alcune iniziative riguardanti la prevenzione in montagna, tra cui il ciclo di incontri intitolati “Sicuri in montagna”. Dallari ha detto che le donne accedono a tutti i corsi di formazione e che non ci sono differenze tra i due sessi nei soccorsi in ambiente impervio. Solo l’eventuale incompetenza o degli uni o delle altre fa la differenza. Festi ha affermato che la maggior parte dei partecipanti al Master di secondo livello in medicina di emergenza in montagna organizzato dall’Università dell’Insubria di Varese è costituita da donne.
17.11.24