Trasgressioni sul San Matteo

Guido Ferrari ufficiale delle truppe alpine dovette affrontare un dovere ingrato: scoprire chi tradiva fraternizzando col nemico. Ma non ci riuscì (o non volle?)

Giancelso Agazzi

 

 

Si sa che nel corso della Guerra Bianca si erano verificati alcuni tentativi di pace separata sulle vette o sulle postazioni dove italiani e austro-ungarici si fronteggiavano. Dopo mesi e mesi di guerra e di stenti e in postazioni incredibili, in alcune zone recondite del fronte, si erano stabiliti contatti e quasi amicizie. In alcune ridotte la distanza tra le truppe di fronti opposti era di pochi metri.

Tra le tante informazioni che giravano, si era diffusa la notizia che sul San Matteo vi erano degli strani scambi. Il San Matteo, una superba piramide ghiacciata che si erge a est del passo del Gavia, fu così chiamato dall’alpinista ed esploratore austro-ungarico Julius Von Payer quando lo salì per la prima volta il 21 settembre del 1867, il giorno di San Matteo appunto. Mio zio Guido Ferrari, ufficiale delle truppe alpine, si trovava di stanza sul passo del Gavia al Battaglione Mondovì. Venne comandato sulla cima del San Matteo per controllare alcuni movimenti sospetti. La cosa non è che gli piacesse molto. Sarebbe stato un compito ingrato, ma gli toccò salire fin lassù per controllare quegli strani movimenti. La postazione che si trovava sulla vetta del San Matteo era ben piccola. La breve distanza che esisteva tra la cima e le ridotte austro-ungariche rendeva assai facili i contatti tra i due schieramenti e, poi, essendo più defilati i soldati erano meno soggetti a controlli. Guido Ferrari salì un pomeriggio di fine estate in compagnia di alcuni alpini. Dal passo del Gavia ci volevano almeno tre ore per raggiungere fin i 3678 metri di quota. Si doveva camminare per lo più sul ghiacciaio, facendo attenzione ai crepacci, usando corda, piccozza e ramponi. Erano giovani, tutti bene allenati e raggiunsero con buon passo la meta prima di sera, illuminati dall’ultimo sole. Erano stati accolti da una giornata limpida. Solo qualche nebbia ricopriva in parte la Valfurva, mentre il sole era ancora abbastanza alto sopra la cima Gavia. La guarnigione non era stata informata dell’arrivo del Ferrari e si trovò a mal partito quando vide arrivare il gruppetto di Alpini. Subito i soldati sospettarono qualcosa, ma Ferrari, dopo essersi presentato all’ufficiale che comandava la postazione, disse che era salito fin lassù per effettuare dei rilievi e per controllare lo stato delle truppe. Sarebbe restato lì per il tempo necessario a svolgere il lavoro. Ferrari era un alpinista e da un lato non gli dispiaceva trascorrere qualche giorno su quella vetta, mentre il compito che gli era stato assegnato lo metteva in difficoltà. Era un uomo di indole buona, non un militare fanatico e prendere posizioni dure contro gli Alpini non gli sarebbe piaciuto per niente. Ma il suo dovere e non poteva sottrarsi. Prima di partire per il San Matteo si era studiato per bene il Regolamento Militare di Guerra. Per alcuni giorni se ne stette in disparte, facendo finta di osservare i luoghi, ispezionando con il cannocchiale le postazioni del nemico, sul Giumella e oltre fino al Palon de la Mare. In realtà cercava di osservare i movimenti dei soldati, ascoltando, in disparte, anche i loro discorsi. Era in un certo modo preoccupato. Qualche alpino squilibrato o risoluto avrebbe potuto, infatti, sorprenderlo e, dopo avergli dato una spinta, farlo precipitare giù dalla parete nord della montagna. I contatti con le truppe avversarie avvenivano di notte ed è per questo che non era facile scoprirli. Il giovane ufficiale che comandava la postazione era a conoscenza dei movimenti dei soldati, ma lo teneva nascosto. Capiva la situazione dei suoi ragazzi che vivevano per mesi a quelle quote. Così cercava di coprire le loro scappatelle, che i comandanti, nei loro confortevoli ambienti, volevano punire in modo esemplare. La vita lassù era molto dura, specie d’inverno, quando le azioni di guerra venivano sospese, quando i nemici erano il freddo, la neve, il ghiaccio. Il panorama di cui si godeva su quella ardita vetta era incredibile, ma si era in mezzo al ghiaccio, alle rocce e ai crepacci. Dalla cima del San Matteo era possibile osservare l’Adamello, il Gran Zebrù, il Cevedale, e pure i giganti delle Alpi, verso occidente, tra cui il Monviso e il Monte Bianco. Di notte le sentinelle montavano di guardia e ogni tanto le pattuglie andavano in ricognizione sul ghiacciaio. Molti soldati italiani conoscevano bene qualche avversario che si trovava nei pressi. Alcuni parlavano italiano come loro, erano della Val di Sole, si conoscevano bene già prima dello scoppio della guerra. Erano guide alpine, cacciatori, pastori o commercianti di bestiame che frequentavano i mercati di oltre confine. Lassù i soldati si scambiavano derrate alimentari in cambio di grappa e di tabacco austriaco, ma non solo. Parlavano degli amici comuni o dei parenti, di ciò che stava succedendo a casa. Poi, erano convinti che questi contatti non avrebbero recato alcun danno alle due parti che si fronteggiavano. Gli incontri avvenivano con più facilità con il brutto tempo, ma anche le notti di luna piena andavano bene. Gli episodi di fraternizzazione si verificavano con maggior frequenza nelle zone dove vi era minor sorveglianza. Il rischio di essere scoperti era piuttosto alto e avrebbe comportato un processo con l’accusa di tradimento e intesa con il nemico, passibile di fucilazione. Esisteva un tacito accordo di non sparare. Alcuni degli ufficiali che si erano avvicendati sul San Matteo negavano l’evidenza di questi contatti con il nemico, mentre altri lo sapevano e lasciavano correre. Era un aspetto piuttosto marginale della guerra, ma non per questo doveva essere ignorato, pensava tra sé e sé il Ferrari. Di notte si era alzato alcune volte per spiare le sentinelle che montavano di guardia, sfidando il freddo e il ghiaccio, ma non aveva trovato alcuna irregolarità. Gli Alpini erano diventati più sospettosi dopo il suo arrivo e stavano molto attenti. Erano riusciti ad avvisare gli amici/nemici, dicendo di interrompere momentaneamente gli scambi. Non riuscendo ad identificare alcuna evidente irregolarità e capendo che era difficile farlo e, non volendo mettere in difficoltà gli Alpini, il Ferrari si decise ad uscire allo scoperto. Chiese all’ufficiale comandante di radunare i soldati della guarnigione per fare un bel discorso. Fece chiaramente capire a tutti che era al corrente di certi movimenti che si verificavano sul San Matteo specie nelle ore notturne, anche se non ne aveva prove tangibili. Non volle farsi dare i nomi dei possibili sospettati, ma mise in guardia gli Alpini, invitandoli tutti a non continuare tali attività pena il rischio di essere deferiti al Tribunale Militare, secondo quanto previsto dal Regolamento di Guerra. Il reato era grave, punibile con pene severissime. ”A buon intenditor, poche parole”, disse il Ferrari per farla breve e per non essere frainteso o preso per fesso. Dimostrò comprensione, ma fu inflessibile nel sottolineare i rischi cui i soldati sarebbero andati incontro nel tempo. Dopo una settimana Ferrari fece ritorno al passo del Gavia per fare rapporto ai Comandi circa la sua missione sul San Matteo. Disse di non aver riscontrato alcuna irregolarità e di aver fatto un discorso molto chiaro agli Alpini, mettendoli in guardia da eventuali severi sanzioni nei loro confronti. Non so quanto le sue parole siano valse o siano state recepite, o a quanto siano servite per sensibilizzare gli animi di quei poveri soldati. Con tutta probabilità, i contatti clandestini continuarono nonostante la guerra che aveva la pretesa di mettere l’uno contro l’altro gli abitanti della montagna.